“Da meccanismo di distribuzione, la radio può trasformarsi in uno strumento di comunicazione […] Accadrà quando imparerà non solo a trasmettere, ma anche a ricevere; in altre parole, quando darà all’ascoltatore la possibilità di essere ascoltato, e non solo di ascoltare; quando, invece di isolarlo, lo metterà in contatto”1.
Bertolt Brecht scriveva queste parole nel 1932. I media di oggi, si sa, sono i sogni degli artisti di ieri. Il sogno di Brecht ci ha messo ottant’anni ad avverarsi. Laddove ha fallito la TV via cavo negli anni Settanta, e ha vinto solo parzialmente il Web degli anni Novanta, hanno avuto successo i servizi di social networking del nuovo millennio, da Flickr a Facebook, passando per YouTube. Il sogno di Brecht è stato realizzato da realtà corporative opalescenti, che ci mettono a disposizione una cornice ma hanno disperatamente bisogno dei nostri contenuti, e con essi dei nostri dati personali, delle nostre preferenze, delle nostre relazioni.
Dire che il sogno di Brecht si è avverato significa affermare che chiunque abbia a disposizione la tecnologia necessaria per fruire un video on line dispone anche di quella per crearlo e trasmetterlo. In realtà, nel 2007 solo l’1,5% degli utenti di social networking contribuiva al loro contenuto — gli altri restavano consumatori passivi. Nonostante questo, la produzione di contenuti dal basso è immensa: Ryan Junee, Product Manager di YouTube, ha scritto che nel 2007 sono state caricate sei ore di video al minuto — che diventano ventiquattro ore al minuto nel 20102. L’utente di Internet, esclamano tronfi i sostenitori delle reti sociali, non è più un consumer, ma un prosumer: un produttore-consumatore. Il video, spiega l’artista Tom Sherman, non è più un mezzo esclusivo: è diventato “il mezzo della gente”, “il linguaggio vernacolare della nostra era”, “il punto di vista di ognuno”3.
Come rispondono gli artisti a questa democratizzazione del video e ai mezzi attraverso cui si manifesta? La via della fuga trova la sua variante più significativa nella “reinvenzione del medium”, un approccio che, secondo Rosalind Krauss, si sostanzia proprio quando un determinato mezzo diventa “il mezzo della gente”4. In questo articolo, tuttavia, vorrei soffermarmi su alcuni artisti che YouTube lo usano, e lo prendono molto sul serio. Molti di loro fanno parte della cosiddetta scena pro surfer, che dal 2006 si organizza attorno ad alcuni blog a gestione collettiva come Nasty Nets e Supercentral, in cui i partecipanti instaurano un dialogo a distanza fondato sullo scambio, la manipolazione e il commento di materiali mediatici — immagini, video, testi — trovati in rete5. Questa pratica collettiva, che fa da sfondo al lavoro individuale, li spinge, da un lato, a mettere al centro di quest’ultimo pratiche come il montaggio, la post produzione, la copia e il remix e, dall’altro, ad attribuire un peso non comune a un doppio dialogo: quello interno, fra i membri del surfing club, e quello che intrattengono con la più ampia e variegata comunità degli utenti della rete, o di un particolare servizio come YouTube.
Esemplare, a questo proposito, il lavoro video di Petra Cortright, che si intrufola con perfetto mimetismo in uno dei generi più comuni del video vernacolare, l’ego clip: autorappresentazione narcisistica in cui gli utenti posano, danzano, cantano e fanno sport davanti alla videocamera. Cortright approfitta della propria bellezza e del proprio look da teenager per fare lo stesso, ricorrendo quindi a semplici trucchi di post produzione per marcare la propria alterità rispetto a quella cultura a cui, nonostante tutto, aderisce: integrando nel video animazioni, clip ed effetti “glitter”, oppure usando filtri standard, come in Das Hell(e) Modell (2009), dove un effetto di luce basta a trasformare una ragazza che danza in una presenza fantasmatica e suggestiva.
Realizzati per YouTube o altre piattaforme, questi video sono al contempo una risposta conforme e una nota a margine alla cultura cui queste piattaforme hanno dato vita. Si candidano a diventare il prossimo “video virale”, ma sono allo stesso tempo un commento e una critica alla presunta democrazia del “vota questo video” e al basso livello di attenzione a cui questa ricchezza di proposte ci costringe. Cory Arcangel ha sviluppato questo commento appropriandosi di uno dei topoi del “digital folklore”, il gatto6. Un gatto di nome Pajamas fu, il 22 dicembre 2005, il protagonista del primo video caricato su YouTube. In una sofisticata operazione di remix, Arcangel ha fatto ricorso a centinaia dei suoi successori per realizzare Drei Klavierstücke, Op. 11 (2009): un ciclo di tre video in cui l’artista reinterpreta il difficile pezzo di Arnold Schönberg servendosi di frammenti trovati sul Web in cui un gatto cammina sui tasti di un pianoforte. In questo lavoro, vernacolo e avanguardia — Op. 11 è considerato il primo pezzo “atonale” di Schönberg — si sovrappongono in un mix irresistibile, che gli ha consentito di superare, su YouTube, le centomila visualizzazioni.
Con 5050 (2007) Oliver Laric sposta l’asse dell’attenzione dalla musica all’indagine socio-culturale di un culto, quello per il cantante rap 50 Cent. L’artista ha selezionato cinquanta video in cui gli utenti reinterpretavano, danzando e cantando in lip-sync, una celebre hit di 50 Cent, e li ha montati in un nuovo videoclip, in cui il machismo e il culto del denaro incarnati dalla star contrastano con la quotidianità dimessa e senza speranze di questi teenager di colore. Nel successivo Touch My Body (Green Screen Version) (2008), Laric interviene sull’omonimo video di Mariah Carey, coprendo tutto di verde in modo che resti visibile il solo corpo della cantante; in questo modo ha, da un lato, isolato l’oggetto del desiderio, il vero protagonista di tutto il video, e, dall’altro (introducendo il “green screen”), ha predisposto il video per altre, innumerevoli versioni, poi effettivamente realizzate da altri utenti.
Questo lavoro di editing sul video vernacolare può assumere anche declinazioni più estreme. Da sempre interessato alle esperienze di proiezione extracorporea del sé, Brody Condon si è imbattuto in una serie di video in cui i protagonisti si riprendono sotto gli effetti di una potente droga psichedelica. Il primo risultato è stato Without Sun (2008), un video di montaggio di quindici minuti, in cui i performer improvvisati danno sfogo alle proprie visioni parlando, urlando o piangendo davanti alla telecamera. Quindi, Condon ha fatto ripetere queste parole e queste azioni a dei performer, servendosi del video come sceneggiatura e come base per la coreografia, e documentando il tutto in un altro video, gemello del precedente.
Al reenactment, seppur in forme estremamente diverse, è interessato anche il collettivo italiano Alterazioni Video. Uno dei loro ultimi progetti, I Would Prefer Not To (2009), ha visto la traduzione di materiale vernacolare prelevato da YouTube e da altri luoghi topici del Web 2.0 in immagini, sculture, video e performance. Hanno dichiarato: “Abbiamo speso ore a navigare in rete […] Abbiamo cominciato a pensare che ogni sorriso, ogni sguardo che incontravamo fosse intenzionalmente dedicato a noi”. Una frase che lascia intendere quanto appassionante e coinvolgente possa essere quel particolare dialogo che si crea, sullo schermo, tra i membri attivi di una rete sociale. Alterazioni Video, tuttavia, ha voluto portare altrove quel dialogo, ricostruendo rompicapi documentati in rete come il precario equilibrio di una pila di palle da bowling, remixando immagini, riproponendo nella realtà l’ambiguità di un’immagine trovata.
Il duo olandese Jodi, invece, ha deciso di farsi coinvolgere attivamente in questo dialogo, sfruttando la possibilità, offerta da YouTube, di replicare a un video con un altro video. Così ha risposto a un altro genere molto comune — i videoclip amatoriali — registrandone la traccia audio su vinile, per poi caricare, nello spazio dei commenti dell’originale, una registrazione video del vinile in esecuzione; oppure, ha replicato a centinaia dei video più visualizzati limitandosi a registrare, per pochi secondi, l’impronta del pollice sulla webcam. Jodi risponde con la concretezza della realtà, nel primo caso omaggiando con un “vero disco” una celebrità ricercata e mai conquistata, e nel secondo replicando con una traccia fisica e sensuale e con un’affermazione di identità a una notorietà conquistata ma effimera.
In tutti questi lavori, YouTube è insieme mezzo, fonte e, con la sua peculiare economia dell’attenzione, soggetto dell’opera, in un’autoreferenzialità inevitabile che non può non confrontarsi con le sue icone. Con YouTube as a Sculpture (2009), l’olandese Constant Dullaart ha creato un’installazione che riproduce l’animazione di caricamento di YouTube con palle di styrofoam: ripreso in video, il lavoro è stato quindi riproposto sul sito, in una sorta di gioco di specchi. In Moonwalk (2009), il ceco Martin Kohout si serve invece degli elementi strutturali di ogni video di YouTube — la barra di scorrimento e l’animazione di caricamento — per dare vita a un poetico paesaggio notturno, una felice trasposizione del paesaggio mediatico in cui, sempre più spesso, il nostro immaginario si trova a vivere.
Un altro modo interessante di lavorare con il video vernacolare si fonda sulla semplice giustapposizione di video diversi in una cornice stabilita, in forma di “griglia” (una strategia ripresa in tutte le sue implicazioni moderniste). Nel 2008, John Michael Boling ha presentato nella sezione on line della mostra “Unmonumental” (New Museum, New York) Guitar Solo Threeway (2006), una pagina Web in cui sono incorporati tre assoli di chitarra pescati su YouTube. Più di recente, il progetto “3 Hours in 1 Second” ha invitato diversi artisti (tra cui Jodi e Arcangel) a “curare” selezioni di video di YouTube “in a grid”. In questo caso è difficile parlare di remix, e ancor più di appropriazione, dato che i video rimangono nella stessa sede, limitandosi a essere presentati in una nuova cornice. L’atto creativo consiste, in questo caso, nella selezione di una playlist: pratica artistica e attività curatoriale si fondono. L’artista, come scriveva Nicolas Bourriaud nel 20027, è colui che disegna un proprio percorso nel caos di artefatti reperibili in rete. Quando tutti producono “media”, la selezione diventa l’unico modo per produrre contenuti.