Sono tempi di crisi anche per le immagini, oggetto di una svalutazione indotta proprio da quelle nuove tecnologie che, facilitandone la produzione e la fruizione, alimentano un godimento estetico bulimico e acritico. Siamo inondati dalle immagini, sopraffatti dal loro potere sui desideri individuali e collettivi, dalla loro condizione di avatar — sostituti di esperienze che dalla sfera delle relazioni dirette migrano nell’arena pubblica del virtuale o della spettacolarizzazione della realtà.
Non sappiamo più dire cosa sia veramente un’immagine oggi; lo sanno bene gli artisti che devono confrontarsi costantemente con un impoverimento progressivo del valore delle immagini artistiche messe sullo stesso piano indistinto di tante altre impressioni visive e da quell’economia del nulla, che elogia e promuove il valore laddove tende a scomparire.
Ma l’arte non ci sta e si ribella. Parafrasando Benjamin, di fronte alla perdita dell’aura di un libro o di un oggetto artistico a opera dei dispositivi di virtualità come l’e-book, il cellulare e altri, risponde opponendo ciò che le nuove tecnologie tendono a smaterializzare — la voce, la parola, il gesto, la relazione diretta. Stiamo assistendo ad un curioso fenomeno di controtendenza, la rivalutazione dei linguaggi orali e letterari, di pratiche performative e teatrali, contrapponendo parole e azioni allo svilimento delle immagini.
È la ricerca di un tempo non ancora perduto ma prossimo alla sua estinzione, che trova nuove forme espressive nel lavoro di artisti nati soprattutto a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, i quali ritornano alle origini dell’arte conferendo un valore rinnovato a pratiche come la performance, l’azione teatrale, la recitazione, il reading pubblico e la scrittura, da reinventare proprio in virtù del loro carattere di obsolescenza.
Tra i primi, l’artista tedesco Tino Sehgal che ha fatto della tradizione vocale un nuovo modello artistico. Le sue performance vivono giusto il tempo del récit da parte di attori professionisti che recitano, cantano e ballano brevi testi scritti da lui sull’arte; nessuna documentazione visiva, nessuna traccia registrata, nulla è lasciato a futura memoria. L’opera esiste solo nello spazio e nel tempo del suo compiersi, nell’esperienza e nel ricordo di chi era presente. L’immagine è sostituita da altri tipi d’impressioni, più dirette e intimiste, che eludono lo stadio della spettacolarizzazione e della banalizzazione mediatica.
Emblematico è anche il caso dell’artista israeliana Keren Cytter, nota per il suo brillante lavoro di rinnovamento dei modelli video-cinematografici, che parallelamente lavora con la letteratura e il teatro scrivendo racconti, poesie, sceneggiature teatrali di cui è anche regista. E non è la sola a praticare il doppio binario visivo/vocale: narrazione e performance caratterizzano il lavoro di Tris Vonna-Michell, Simon Fujiwara, Yael Davids, Falke Pisano e di alcuni giovanissimi come Kasia Fudakowski, che fonde insieme il linguaggio della commedia con quello dell’arte.
Dieter Roelstraete scrive a riguardo che il teatro e le arti performative hanno sostituito uno dei paradigmi dominanti degli anni Novanta rappresentato dal film: se la performance ha preso il posto delle proiezioni video e il teatro quello del cinema, è perché la tradizione occidentale della “metafisica della presenza” è costruita sul primato dell’oralità rispetto al linguaggio scritto (D. Roelstraete, “Word Play”, in Frieze, n. 139, maggio 2011).
La problematica dei linguaggi — tema caro all’Arte Concettuale — si ripresenta a quarant’anni di distanza nella sua dimensione storica come riflessione sulla modernità, sui cambiamenti nell’economia del sapere e dell’informazione, sulla rapida obsolescenza dei modelli culturali e sull’avvento dell’e-book. Il fiorire in anni recenti di un’abbondante produzione letteraria nelle arti visive (libri, riviste, blog) è un sintomo delle nuove generazioni, che affidano alla parola un valore rinnovato, non più da ricercare solo con l’immagine.
Questa mutata identità dell’artista — a cui viene richiesto oggi di saper argomentare discorsi di vario genere non solo sul proprio lavoro, ma pure sulle questioni dell’arte, sul presente e sulla storia — contraddistingue diverse figure del panorama italiano.
Francesca Grilli ha investito la performance di possibilità espressive impossibili da rappresentare con l’immagine tradizionale, estendendo al contempo lo spazio d’azione dello spettatore. Nell’opera The Conversation, presentata al MAMbo di Bologna nel 2010, l’artista ha creato un’alchimia unica nel suo genere tra suono e sordità invitando un performer sordo a tradurre per il pubblico la musica di un duetto d’archi. Le vibrazioni sonore, rese digitalmente percepibili al performer tramite la struttura in legno su cui stava, venivano da lui trasposte in un canto muto grazie al linguaggio dei segni, mentre il pubblico poteva a sua volta sentire con il corpo le stesse vibrazioni tenendo tra le mani uno dei palloncini neri che riempivano la sala.
Sempre il suono è il medium scelto da Dacia Manto con cui offrire allo spettatore un’esperienza inedita dell’atto creativo — nello specifico, disegnare come origine dell’opera. Nella performance On Growth and Form, presentata allo spazio Ex-Brun a Bologna nel 2011, Manto si nasconde allo sguardo del pubblico rifugiandosi dentro una tana-scultura costruita con i suoi disegni. Invisibile dall’esterno, lo spettatore può percepire solo i rumori amplificati delle sue mani che disegnano freneticamente sulla carta e del suo corpo che si muove. Il suono materializza il segno, mentre il corpo sembra sparire nello spazio dell’arte.
Con il suo progetto on-going “Rumors”, Marcella Vanzo interviene sui significati della rappresentazione operando una decostruzione della drammaturgia e dei suoi elementi costituenti — la voce, il corpo, la trama, la scena. Nella performance il mito di Medea è preso a pretesto per narrare in nove brevi ritratti eventi marginali come i pettegolezzi, le voci di corridoio, gli intrighi. A seconda del luogo e dello spazio di rappresentazione, l’opera è sottoposta a cambiamenti visivi da parte dell’artista sulle azioni, sui performer o sui costumi, eccezione fatta per le voci che rimangono l’unica costante della decostruzione.
Anche Davide Savorani lavora sul rinnovamento della performance in relazione al teatro e allo spazio dell’arte. Per la sua personale “Green Room”, presentata a Milano nel 2011, lo spazio Careof è stato trasformato in un set, una sorta di “camera verde” teatrale, dove le sculture mobili dell’artista erano soggette a quotidiani spostamenti e remise en scène da parte di performer. Uno spostamento dal back stage all’on stage della fase che precede l’esibizione allo scopo di mostrare la “struttura drammaturgica” dell’opera, arricchita anche da un reading del filosofo Diego Donna, invitato a esibirsi in un soliloquio nascosto allo sguardo del pubblico.
L’interesse crescente per la memoria collettiva è confluito in una “febbre d’archivio” che dà voce a pratiche di contro-narrazione basate sulla centralità dei materiali audio e del racconto orale. Nel lavoro di Rossella Biscotti, per esempio, la parola diventa veicolo di significati nuovi all’interno di un processo di rimessa in circolo della Storia e dei suoi documenti. L’ascolto consente allo spettatore di confrontarsi più direttamente con il racconto dell’evento e con la produzione della memoria, come si coglie nel suo lavoro Il Processo (2010-2011), incentrato sul processo noto come “7 aprile” in cui furono implicati alcuni intellettuali membri di Autonomia Operaia, imputati di essere i responsabili ideologici del terrorismo italiano degli anni Settanta. Nella performance l’artista pone lo spettatore nella condizione di testimone diretto del processo coinvolgendolo nell’ascolto di una traccia audio di due ore, estrapolata dalle registrazioni degli interrogatori, davanti a una panchina e a una sedia vuote; di tanto in tanto le voci sono inframmezzate dalle parole di un interprete che interviene sedendosi sulla sedia e traducendo dall’italiano all’italiano il testo del processo.
La nostalgia per il passato tocca anche quei paradigmi creduti inossidabili come il libro e la fotografia, oggi messi in crisi dalla smaterializzazione della parola stampata a opera dell’e-book e dell’animazione in 3D. Due artisti italiani lavorano in particolare sul loro grado di obsolescenza individuando nella performance quella “promessa” di cui parlava Benjamin a proposito del ritorno del fuori moda e che Rosalind Krauss cita come forma di reinvenzione del medium. Con Cutter Cristian Chironi coinvolge il pubblico nell’esperienza intima di rilettura di vecchi libri (soprattutto d’avventura, di viaggi o di genere naturalistico) diventati pietre miliari nella formazione di ogni persona. Una lettura ironica, velata di malinconia, in cui l’artista traduce in azioni le parole e le immagini dei libri: indossa una maschera da sub mentre sfoglia un volume sugli animali marini, si arrampica sui muri della galleria quando guarda libri fotografici di montagna, aziona un ventilatore per suggerire l’immagine del vento. L’artista si spinge oltre intervenendo direttamente sui testi con tagli atti a modificare la narrazione visiva del libro. I vuoti lasciano intravedere parti delle pagine sottostanti e creano delle giustapposizioni che trasformano l’immagine del libro.
Alla fotografia delle origini viene data una consistenza nuova nella performance di Linda Fregni Nagler dal titolo Things that Death Cannot Destroy, con la quale l’artista ricrea il dispositivo ottocentesco della proiezione di lanterne magiche, soppiantato poi dall’invenzione del cinema. Presentata per la prima volta in un teatro nel 2010, e successivamente in musei e gallerie, la performance si svolge sulla doppia proiezione di lanterne magiche di diversa provenienza e soggetto, accostate dall’artista seguendo la libera associazione. La riattualizzazione nel presente di un procedimento sospeso tra il passato (il teatro) e il futuro (il cinema) della visione è resa grazie alla voce recitante di un’attrice che legge le didascalie delle lanterne nel momento della loro proiezione, elencando date, luoghi, osservazioni personali del fotografo e copyright di ogni immagine. La voce narrante conferisce un carattere singolare alla proiezione sospesa tra la rappresentazione teatrale, il documentario live, il reading scientifico.