Le Biennali del Whitney (le “-ennali” in genere) sono sopravvalutate se i curatori le affrontano come mezzi per comprendere lo stato e la direzione in cui si muove l’arte americana, che attualmente è simile a una palude immersa nella nebbia, attraversata da sentieri fangosi che svaniscono nella foschia e di cui non si comprende la destinazione finale. Tuttavia, i collezionisti pattugliano questi sentieri nel tentativo di scovare quale artista sarà consacrato rivelazione dell’esposizione e braccano i galleristi durante l’inaugurazione per assicurarsi gli scintillanti trofei. Vi è molto di incerto, ovvio e monotono nelle classifiche, che tuttavia costituiscono un aspetto endemico di questo modo di agire. Nel caso specifico, questa Biennale è relativamente interessante ma tuttavia pone l’accento su alcuni aspetti di continuità abbastanza verosimili all’interno dell’arte americana. Come sempre, vi sono strane inclusioni e altrettanto strane esclusioni. È una mostra comoda da visitare ed è caratterizzata dalla diversità e dalla distanza della forma. La maggior parte delle opere è insignificante e forse l’affermazione più convincente di tutto il catalogo, altrimenti carente, è che “… per molti [l’arte] rappresenta anche uno sforzo per dare un senso alla propria esistenza…”.
André Malraux ha affermato in modo succinto nel suo Les voix du silence che “… tutta l’arte è una rivolta contro il destino dell’uomo”. Suzan Frecon, all’età di quasi settant’anni, è ancora un’artista sensazionale, i suoi dipinti hanno forme pulite ed essenziali. Le masse bilanciate e la loro controbilanciata disposizione sono motivi classici della composizione, mentre i colori scuri e non troppo armoniosi rispecchiano un pensiero chiaramente romantico. La pittura è applicata con intensa delicatezza e il risultato è allo stesso tempo semplice e complesso: si potrebbe definire un lavoro ortodosso quanto radicale. I suoi dipinti sono la testimonianza di dove ci si può spingere con il medium pittorico e posseggono un’immediatezza e una sincerità di cui in questo momento si sente il bisogno. Il lavoro di Suzan Frecon è brillante, elegante ed epico e non è un caso che opere di queste dimensioni siano valutate fino a 160 mila dollari.
Con la sua installazione, assai convincente e caratterizzata da una notevole osmosi fra le varie componenti, R.H. Quaytman si afferma fra gli artisti più interessanti della generazione dei quarantenni. Infatti, l’artista rivela un approccio formale e un uso del colore molto chiaro, e possiede una notevole audacia espressiva e una spettacolare abilità compositiva. I suoi riferimenti all’architettura e a Edward Hopper (il miglior artista figurativo che gli Stati Uniti abbiano prodotto finora) provocano più scintille di quanto io non possa fare in un insignificante paragrafo. Il vigore e la complessità della sua installazione sono incredibilmente alti e infatti i prezzi vanno dai 5 mila ai 18 mila dollari.
Frecon e Quaytman hanno qualche lontano punto di contato con Tauba Auerbach. In quest’ultima, nessuna delle connessioni tra sensazione visiva e percettiva o tra bidimensionalità e tridimensionalità fallisce del tutto, ma suggerisce conclusioni più profonde e interessanti dell’apparenza. I suoi dipinti eleganti e di grandi dimensioni all’inizio sembrano piacevoli ma poi risultano insipidi. Le superfici intricate ricordano un tessuto stropicciato — non la raffigurazione della trama ma piuttosto un diagramma. Si tratta di un’idea di pittura molto negligente, e conferma che in generale la sua fama potrebbe essere esagerata; ma nonostante ciò l’equazione tra domanda e offerta dei lavori di Auerbach è tale che probabilmente si assisterà a breve a un aumento delle quotazioni, che oggi si aggirano tra i 40 e i 70 mila dollari.
I dipinti di Maureen Gallace hanno un carattere dinamico e sereno, ma la loro struttura è decisamente fragile. Il colore smorzato, le ombre e anche il grado di attenzione sembrerebbero rifarsi al linguaggio di Giorgio Morandi, ma l’artista rimane in posizione dominante: la sfumatura del quadro è amplificata dall’inclusione di qualità intrinseche dell’autore che resistono all’espressione. Questa freddezza è comunque una delle caratteristiche più accattivanti di Gallace, infatti le sue opere si aggirano intorno ai 47 mila dollari. Lesley Vance è ben rappresentata da quattro piccoli quadri; in generale i suoi lavori hanno una struttura che richiama in modo palese i dipinti spagnoli del XVII secolo, con cui vi è un’affinità compositiva ma certamente non filosofica. Tecnica sicura e apparente facilità di esecuzione sono le virtù salienti dei suoi quadri, intuitivi, raffinati e segnati dal movimento. I vari elementi rappresentati, infatti, non si delineano in modo rigido all’interno del loro spazio, ma sembrano capaci di espansione e contrazione. Non si tratta dunque di un ordine ultimo che serve a controllare la composizione, ma piuttosto di una scelta di fluidità che genera una potenza tale da non risultare usuale. Questi dipinti variano tra i 7 e i 9 mila dollari.
La delicata tecnica pittorica di Roland Flexner deriva dalla giapponese suminagashi, l’arte di far galleggiare l’inchiostro su acqua o gelatina. Flexner padroneggia questa tecnica con estrema abilità. Il soffio, il caso e la gravità sono utilizzati per creare immagini voluttuose e trasparenti. Il riserbo e l’intimità compressa dei suoi disegni ne mettono a fuoco la delicatezza. I suoi lavori sono “spazialmente” diminutivi ma visivamente convincenti. Si tratta di una simmetria sorprendente. Ogni disegno è stimato 6 mila dollari.
I fiori, nell’opulenta sala di Charles Ray, sono efficaci, di certo comunicativi e di facile comprensione, ma per nulla avvincenti. La tecnica è molto delicata, ma non è interessante e risulta semplicistica e inerte dal punto di vista spaziale. Viene da chiedersi se tutte e quindici le opere scelte e la quantità di spazio a esse riservato fossero necessarie. Quattro lavori potevano essere sufficienti. Le opere su carta vanno dai 100 ai 200 mila dollari, il che è decisamente eccessivo.
Jessica Jackson Hutchins presenta un unico lavoro che si colloca tra scultura ordinaria e qualcosa di nuovo ma privo della struttura e delle qualità intrinseche della scultura stessa. Non si tratta di una sintesi e dunque risulta estremamente slegata. C’è infatti poco di quanto viene di solito definito composizione e che non può essere compreso attraverso la contemplazione dei singoli elementi plastici. Questo atteggiamento è nuovo ed è chiaramente forte e vivace; è proprio un peccato che per la mostra sia stato scelto un solo pezzo. Sarebbe stata un’ottima scelta se fosse stata esposta anche un’opera presente nella recente personale dell’artista presso la galleria Small A Projects di New York: una sedia con un abbozzo di vaso sopra la seduta e una parte dello schienale rimossa a ricordare l’ombra proiettata dalla forma del vaso. Il lavoro è tanto improbabile quanto eccezionale e dovrebbe rappresentare un pericolo in generale per molta dell’attuale monotonia in campo scultoreo. Le sue opere vanno dai 12 ai 30 mila dollari.
In contrasto con il lavoro di Hutchins, la scultura di Thomas Houseago è massiccia e peculiare. Mantenendo le apparenze di un passivo gesto classico, l’autore riesce tuttavia a trasformarla in un’arte accademica. Questa sorta di composizione ultra-espressionistica è una pecca cronica di gran parte dell’arte giovane: non c’è un grande sviluppo di una qualità precisa nella chiara espressione iniziale. Il lavoro di Houseago è vigoroso e senza consistenza, ma abbastanza buono da rendere plausibile il fatto che, nonostante potrà fare qualcosa di convincente e coerente nel futuro, a tutt’oggi non l’ha ancora fatto. Le sue sculture comunque rimangono piuttosto costose (200-300 mila dollari).
Il lavoro di The Bruce High Quality Foundation è elementare nella concezione e nella creazione, inoltre non padroneggiano il loro stesso vocabolario. Infatti, non sembrano in grado di decidere se sia l’Arte o la morale a essere stata corrotta, e l’allusione a Joseph Beuys è debole e immatura. La scultura è banale e il video assomiglia al semplice esercizio di uno studente universitario. Credo che l’opera in generale debba avere verve e genialità mentre la loro è superficiale. I prezzi non sono riportati.
Le fotografie di Nina Berman e Stephanie Sinclair sono stilisticamente familiari e di buona fattura. In entrambe le artiste le immagini e la psicologia del lavoro sono troppo ovvie e semplicistiche per ottenere attenzione, passati lo shock e l’empatia iniziali. Queste fotografie sarebbero interessanti se il soggetto non fosse così brutale? Si pensi all’abilità di Diane Arbus nell’inquadrare persone comuni e renderle emotivamente intense e psicologicamente forti senza il bisogno di ricorrere alla spettacolarizzazione della tragedia. I lavori di Berman sono quotati tra i 1,500 e i 3 mila dollari, e i prezzi di quelli di Sinclair non erano disponibili al momento in cui scrivevo questa recensione.
Il video di Josephine Meckseper è definito per ciò che concerne la struttura e il movimento; è forte e chiaro, ed è formalmente più duro e acuto se paragonato ai suoi lavori scultorei. È anche oggettivo, in quanto documentario, eppure la materia rimane soggettiva in modo noioso. Si sviluppa in maniera semplice e ampia e di conseguenza ha una potenza particolare. I suoi video sono valutati 34 mila dollari. Paragonato a quello di Josephine Meckseper, il video di Kate Gilmore è fresco e vivace, ma non indagatore. È pur vero che un’azione ordinaria può avere un effetto indiretto meraviglioso e che serie di azioni ordinarie possono creare un inferno. In questo caso, il video del 1993 di Lucy Gunning Climbing Around my Room ha presentato lo stesso soggetto in modo più sofisticato e avvincente. I lavori di Gilmore oscillano tra i 10 e i 13 mila dollari. Degni di essere menzionati sono inoltre le sculture di David Adamo e quelle di Hannah Greely oltre ai dipinti di Joshua Brand.
La Whitney Biennial 2010 è una buona copia di una buona Whitney Biennal. Complessivamente, il lavoro è sicuro, vario all’interno di determinati limiti, in un certo senso innovativo, e ogni opera esposta possiede tutte le caratteristiche di ciò che consideriamo arte. Alla fine vi è un gran numero di opere ordinarie. Quanto sia il riflesso della timidezza dei curatori o di uno stato generale di timidezza dell’attuale arte americana potrebbe essere oggetto di dibattito.