La sala delle OGR di Torino nella quale si tiene il convegno “Museums at the ‘Post-Digital’ Turn” – organizzato da AMACI e OGR nell’ambito della nuova piattaforma di ricerca Museo Ventuno – è volutamente scomoda. Le sedute colorate non hanno gli schienali e dopo un paio d’ore la stanchezza inizia a sentirsi. Cerco allora delle contromisure. Incrocio le gambe in modo da direzionare il peso del mio corpo su una superficie più ampia, ma nulla… decido di sedermi a terra.
Liam Gillick dice di aver progettato Prototype Design for a Conference Room (1999) per replicare lo stato di crisi della critica e della teoria, costretta ad abitare una zona inospitale, scomoda appunto.
L’opera dell’artista inglese accoglie una riflessione ampia e precisa sulla “condizione post-digitale” – come la definiscono i curatori del simposio Lorenzo Giusti e Nicola Ricciardi –, che cerca di indagare le possibilità, ma anche le zone d’ombra e i rischi, connessi ai cambiamenti percettivi determinati dalla svolta digitale. Il termine “post-digital” – diverso da post-internet, relativo invece alle pratiche artistiche – è un neologismo che contiene, nel prefisso “post”, una normalizzazione, più che un superamento, dei cambiamenti e delle innovazioni tecnologiche. La condizione post-digitale presuppone la rivoluzione digitale, dandola per scontata.
“Museums at the ‘Post-Digital’ Turn” è un’occasione per valutare le modifiche apportate da questa svolta alla produzione e all’esposizione dell’arte: due momenti che sembrano sempre più sovrapporsi, confondersi, dipendere l’uno dall’altro. I macro-temi affrontati nelle due giornate – 3 e 4 novembre – sono: “Pratiche curatoriali e strategie espositive”; “Collezionismo e Conservazione” e “Design per le arti”.
La prima parte del convegno inizia con la densa relazione di Boris Groys che delinea le principali problematiche del post-digitale in relazione alla curatela museale. La differenza tra Internet e i musei, sostiene Groys, non è solo una questione spaziale – da una parte i limiti degli spazi museali dall’altra la vastità della rete – ma anche, e soprattutto, di selezione. Internet è un insieme di meccanismi che risponde ai nostri impulsi di utenti riflettendoli come uno specchio, è uno strumento tautologico che esclude dal nostro raggio d’azione l’irrimediabilmente altro e che dà vita a una “proliferazione dell’Uguale”, come l’ha definita Byung-Chul Han in L’espulsione dell’altro (Nottetempo, Milano, 2017, p. 8), mancante di una controparte dialettica: in rete troviamo solo ciò che vogliamo trovare, ciò che già conosciamo, cerchiamo solo ciò che già desideriamo.
Una curatela museale critica dovrebbe quindi reagire ed essere diversa e opposta alla selezione narcisistica della rete, permettendo l’incontro del visitatore con informazioni non volute, inattese. Dall’intervento di Groys scaturisce anche un’altra riflessione: gli artisti che lavorano con la rete e sulla rete sembrano agire da content provider, come giornalisti freelance, che forniscono contenuti per un’architettura produttiva e distributiva data e incontrollabile. Si trovano però ad affrontare un problema di “traduzione formale” nel passaggio online-offline, ovvero nel momento di esposizione del lavoro digitale all’interno dello spazio fisico della galleria o del museo.
Qual è quindi la giusta strategia espositiva per l’arte digitale? L’interrogativo sollevato da Boris Groys è ripreso e approfondito da Domenico Quaranta che, all’interno del suo intervento, cerca di fare chiarezza su questo punto partendo da uno dei primi tentativi di presentazione della Digital art nei luoghi deputati dell’arte, ovvero la sezione di Net art affidata a Simon Lamunière, in Documenta X curata da Chaterine David nel 1997. In quell’occasione, i progetti dei net artisti erano visibili all’interno di un “media lounge”, allestito nella Documenta Halle tra il bookshop e la caffetteria, che finiva per relegarli e ghettizzarli in uno spazio espositivo percepito come diverso e di “quasi arte”; una strategia che è stata poi ironicamente presentata come bad practice da Alenka Gregorič e Vuk Ćosić – artista-curatore e teorico nonché pioniere della Net art – nella mostra di mostre “Painters and Poets” alla City Art Gallery di Lubiana nel 2014. La problematica relativa all’esposizione della Digital art sembra non sussistere quando sono gli stessi artisti a occuparsi della manifestazione fisica dei loro lavori e della traduzione non solo formale, ma anche culturale, relativa all’esposizione dei loro progetti all’interno di dinamiche diverse da quelle della rete. Cosa resta da fare allora al curatore nel momento in cui gli artisti si occupano della curatela delle loro mostre? Il curatore può collaborare con l’artista all’articolazione di questo passaggio e/o assumere un ruolo storico-critico e di mediazione nella misura in cui cerca di inquadrare questi fenomeni da una prospettiva postmediale. “L’unicità della New Media art nell’orizzonte contemporaneo”, come scrive Quaranta infatti, “non risiede nei media che usa, ma nella sua familiarità con le conseguenze culturali che l’avvento di questi media ha prodotto.”¹
La relazione di Lauren Cornell si situa proprio su questa linea metodologica. La direttrice dei Graduate Program del CCS Bard College, dopo aver passato in esame alcune delle mostre più significative della scena newyorkese, in cui i cambiamenti tecnologici sono stati presentati in contesti museali e in relazione alle pratica artistiche – soffermandosi in particolare su “The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age” curata nel Pontus Hultén al MoMA nel 1968; “TV as a creative medium” all’Howard Wise Gallery nel 1969 a cura di Howard Wise e “Software” curata da Jack Burnham al Jewish Museum nel 1970 –, tratteggia i contorni di una seconda generazione di artisti post-internet, che considerano la rete non un medium ma un mass-medium, interagendo con i sistemi di condivisione e interconnessione dei social. Si pensi al lavoro di Cory Arcangel, Eva e Franco Mattes, Cao Fei, John Rafman, Aaran Koblin, Paul Chan.
I successivi interventi di Victoria Walsh, Malene Vest Hansen, Cécilia Hurley-Griener e Christiane Paul esaminano, in maniera diversa e da differenti angolazioni, le nuove sfide e strategie della curatela connesse alle innovazioni tecnologiche, mentre Claire Bishop delinea un movimento opposto. L’autrice di Artificial Hells si concentra sull’“instagrammabilità” delle performance di danza all’interno dei musei e delle gallerie. Bishop mette in luce una “zona grigia” – a metà strada tra white cube e black box – nella quale si inaugura una relazione simbiotica tra performance e condivisione social, dalla quale scaturisce una rilocazione e una ritemporalizzazione dei gesti dei danzatori: gli spettatori, flâneur dotati di smartphone, completano il lavoro dei performer attraverso le loro storie e i loro post Instagram. In performance come quelle di Maria Hassabi o Ligia Lewis sono infatti le pose, direttamente influenzate dagli shooting della moda, ad essere più importanti dei movimenti. Un esempio su tutti l’opera presentata da Anne Imhof alla Biennale di quest’anno, Faust: un Gesamtkunstwerk incompleto condito con stralci di coolness post-fashion, che necessita di un raddoppiamento espositivo, quasi come se fosse stato pensato, più che per gli spazi del padiglione tedesco, per gli hashtag e le architetture di Instagram.
La prima giornata si conclude con le relazioni di Sara Abram, Hélène Vassal e Sanneke Stigter sulle modalità di conservazione dell’arte contemporanea, mentre il secondo giorno di convegno si apre con il tema del design per le arti sviluppato dalle relazioni di Lily Diaz-Kommonen, Claudio Germak e Michael Grugl. Le conversazioni tra Cécile B. Evans e Carolyn Christov-Bakargiev e tra Liam Gillick e Nicola Ricciardi chiudono le due giornate di simposio.
È in particolar modo dalle parole di Cecilie B. Evans, “vorrei farvi capire che tutto quello che faccio è reale, ha conseguenze e ricadute reali. E se lavoro per ore ed ore al computer ho male alla schiena e al sedere”, che viene fuori un elemento determinante e persistente del panorama concettuale esplorato da “Museums at the Post-Digital Turn”, e cioè l’indissolubile e durevole rapporto della condizione post-digitale con il corpo e la materialità.
Anche a me, alla fine del convegno, fanno male la schiena e il sedere, ma a differenza di Cécile B. Evans non ho prodotto nessun capolavoro e devo la mia stanchezza solo alla scomodità della sala conferenze progettata da Liam Gillick.