Marshall Plan Modernism di Jaleh Mansoor è un libro importante. Il che non vuol dire necessariamente bello oppure definitivo, opinioni da lasciare alle capacità dell’ipotetico lettore e alle conoscenze degli addetti ai lavori. Piuttosto, è un lavoro che apre alla possibilità di pensare in modo diverso, e radicale, il tema che presenta e sviluppa. E cioè, l’interpretazione di una certa arte italiana – in particolare le opere di Lucio Fontana Alberto, Burri e Piero Manzoni – come risposta estetica all’egemonia culturale americana esercitata tramite il Marshall Plan.
Tutto questo avviene attraverso un modo di procedere profondamente dialettico, in cui a fare da sfondo c’è l’uso che Mansoor fa del saggio Il lungo XX secolo di Giovanni Arrighi, la cui concezione dello sviluppo del capitale permette all’autrice di articolare un’analisi che, prendendo in prestito un termine antropologico, si potrebbe dire “multi-situata”.
Andando più nello specifico, un tema rilevante è senza dubbio quello relativo ai modi pittorici propri dei tre artisti sopracitati. In proposito, Mansoor scrive: “Le tattiche formali espresse dalla pittura che prendo in considerazione – il taglio, la bruciatura, l’esplosione, l’eccedenza dei limiti del segno e della sua relazione tra supporto e superficie – non sono mai state impiegate nella pratica pittorica prima o dopo il periodo 1949-1973 e in un altro posto fuori dall’Italia.” [Traduzione dall’inglese dell’autore.] Questa “eccezionalità” è presente in tutte le letture che l’autrice compie – “Fontana e la politica del gesto”; “La plastica di Burri e l’estetica politica dell’opacità” – ma la sensazione è che sia soprattutto accentuata nel caso di Manzoni. Mansoor definisce la prassi dell’artista come qualcosa a metà tra i sogni di superamento della contingenza materiale di un Fontana e la ricerca sulla reificazione di un Broodthaers. Poi, però, attraverso una lettura che prende in considerazione il modo in cui la logica sadiana è stata interpretata come modello intellettuale in quel periodo, per ripensare il rapporto con la materialità, arriva a delineare il lavoro del nostro come risposta dialettica a quel razionalismo. Così, quella di Manzoni si configurerebbe come un’opera “dove struttura e sistema cominciano a dissolversi sotto la loro stessa pressione”.
In sostanza, mettendo in sequenza il lavoro dei tre artisti italiani presi in esame, la traiettoria che Mansoor sembra delineare tenderebbe a descrivere quel momento dell’arte astratta italiana come non solo un’esperienza di rottura ma anche come qualcosa di generativo e intempestivo. Cioè, in grado di produrre “sintomi” leggibili come anticipazioni degli sviluppi successivi, tanto in arte (Arte Povera) quanto in politica (Autonomia). E, allo stesso tempo, un’esperienza capace di conservare in maniera intatta la sua carica sovversiva (su questo, si veda il riferimento a Claire Fontaine).