Keren Cytter Museion / Bolzano di

di 4 Aprile 2019

Tutto, nell’opera di Keren Cytter è composto a strati, a faglie, a blocchi erratici. Tutto si realizza attraverso combinazioni, dissoluzioni, dissociazioni, come se l’artista fingesse di perdere in continuazione il filo del discorso o si affidasse a infiniti fili che lasciano incompiuta ogni narrazione. Sia che si tratti di film, di videoinstallazioni, di disegni, di romanzi, si ha sempre l’impressione di essere di fronte a linguaggi caratterizzati da una “logica ciclica e non lineare”, simile a quella di un diario che è pura traccia e nostalgia di vita. Basterebbe guardare la vetrata del quarto piano, dove è collocata l’intera esposizione: Cytter per giorni vi ha concentrato la sua attenzione, cercando di cogliere con i pennarelli lo spettacolo di uno skyline fiabesco. Solo che a interessarla non è la realtà in sé, ma il modo di vederla, di lavorarla fino all’estenuazione, fino all’essenza, fino a smarrirsi nel paesaggio e nei suoi riflessi. Ma gli smarrimenti di cui lo spettatore fa maggiormente esperienza sono quelli generati dai video, dove ogni senso rimane sempre aperto e indeciso. L’occhio di Cytter non si ferma mai solo alla cosa detta o filmata, ma si spinge invariabilmente più lontano, ammaliato dal fuori norma (dal fuori luogo, tempo, trama). Der Spiegel (2007), ad esempio, mette in scena uno spoglio appartamento berlinese in cui gli interpreti discutono di relazioni, desideri, attrazioni, in un crescendo che sta il comico e il grottesco. A contare non è il racconto in sè, è la narrazione che si spezza: sono gli attori che danno indicazioni di scena, che commentano i sottotitoli o che passano indifferentemente da una lingua all’altra. In un’unica inquadratura Cytter fa emergere, come nella Nouvelle Vague, tutti i trucchi cinematografici, le finzioni tecniche, i montaggi scenici, in modo da riprodurre l’intreccio confuso e disordinato tipico del pensiero.


Ma trame iperboliche, assemblaggi senza logica, dialoghi sconclusionati li troviamo anche in The Coat (2010), un’oscura vicenda di amore e morte che si consuma dentro la complessa logica del gioco del Sudoku. Qui non c’è soluzione, perché non c’è vera storia. E quando c’è ha un significato oscuro che mescola poesia e psicologia, battute ironiche e battute d’arresto. “Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà – avrebbe detto Antonioni – e sotto questa un’altra ancora. Fino alla vera immagine di quella realtà assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai”. Pare questo il filo conduttore del lavoro di Cytter: ossia quello di indagare la follia del vedere, la possibilità-impossibilità della visione. In Four season (2009) un uomo morto si alza dalla vasca da bagno, una donna di nome Lucy viene chiamata di continuo Stella, la neve vortica nell’appartamento, gli oggetti bruciano spontaneamente. Non è solo la decostruzione della messa in scena o la critica cinematografica, ad interessare, ma un’autentica esplorazione della percezione e della memoria: sono le sorprese, i flussi di coscienza, gli improvvisi mancamenti. Come succede anche nel recente video Des Trous (2018), dove l’artista volge l’attenzione al proprio passato, presentando la sua famiglia e i suoi amici nel loro ambiente naturale. Solo che la memoria è come scritta su un palinsesto, ha una consistenza umbratile, svanente. E simbolicamente i quadri sono intaccati dalle tarme, mentre un disegno sta scomparendo. Pare quasi che Cytter abbia bisogno di questi “buchi” o assenze, per allontanarsi dall’incandescenza del quotidiano e osservare la vita da lontano, come fosse una condizione potenziale, plurima. Anzi il viaggio indietro nel tempo la porta addirittura a cimentarsi con l’inedito film d’animazione The Coming (2018), a eseguire disegni per bambini, a concepire le entrate delle sale video in relazione alla fascia d’età. Così il titolo della mostra, “Mature content” (letteralmente, “Per soli adulti”), in realtà sta a indicare uno sguardo consapevole, accorto. Pronto ad essere catapultato dentro “la pluralità dei linguaggi come garanzia di una verità non parziale” (I. Calvino).

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Luigi Meneghelli