Sono ormai note le motivazioni per le quali l’artista Bianca Pucciarelli decide, nel 1971, di cambiare nome. Il suo alter ego maschile nasce come un’azione programmatica e permanente per evidenziare le disparità che corrono sotterranee nel sistema dell’arte. Così l’artista facendo riferimento a Filippo Tommaso Marinetti, come emblema di una fase vivace della ricerca italiana e parallelamente attingendo a ricordi biografici, crea il proprio pseudonimo Tomaso Binga.
Il cambio del nome funziona come un paradosso, agisce, spiega l’artista, su “una sovrastruttura che abbiamo ereditato e che come donne vogliamo distruggere”.
Questa intenzione di scardinare il linguaggio visivo e segnico, come luogo di costruzione del simbolico patriarcale, che accompagna l’artista dagli anni Settanta appare in tutta la sua evidenza nelle opere allestite alla Galleria Mascherino di Roma. In questa sede un’intera antologica viene dedicata ai Feminist Works di Binga realizzati negli anni Settanta e Ottanta, un ricco corpus di lavori ancora poco noti che ci consentono di ricomporre il percorso di ricerca da lei compiuto. Le serie proposte sono numerose, rappresentate da opere esemplari realizzate nel corso dei due decenni e visibili oggi nella loro organicità. Lo spazio espositivo si presta così ad accogliere le diverse modalità adottate dall’artista nella sua ricerca, dove il codice linguistico è messo alla prova dal suo interno in quanto segno, immagine e veicolo di contenuti stratificati.
Il linguaggio, nella sua dimensione verbo-sonora e visuale, è sottoposto a un processo che l’artista stessa definisce di desemantizzazione. Questa operazione di decostruzione e scardinamento del significato sedimentato nei simboli linguistici appare con chiarezza nelle opere scelte per la mostra romana.
Ne è un esempio la serie “Polistirolo”, di cui si espone Madonna con il Bambino del 1972. In questo corpus di lavori Binga realizza dei collage con imballaggi di polistirolo bianco che incorniciano, quasi fossero degli schermi, alcuni particolari fotografici estrapolati dalla comunicazione mass mediale. Nell’opera in mostra, le immagini scelte sono frammenti di volti femminili ritagliati da pubblicità accostati a quello di un neonato. La desemantizzazione del linguaggio visivo è qui chiaramente esplicitata: le immagini così connotate rimandano all’iconografia della Madonna con il Bambino e in un senso più ampio all’associazione fra femminile e maternità. L’artista compie così un’azione di demistificazione ironica del simbolico occultato nell’immaginario visuale.
Il percorso fra le opere suggerisce una continua analisi che gioca sulla dicotomia fra segno grafico e segno verbale. A tal proposito, molti sono gli esempi proposti di “Scrittura desemantizzata”, serie anch’essa iniziata alle soglie degli anni Settanta. In Mettere bianco su nero (1972), Bianco nero con vista (1974), Lettera rossa (1974), Lettera strappata con ardore (1974), o nella versione oggettuale di Strigatoio (1974), il codice alfabetico diventa segno visivo che non porta con sé più nessun significato.
Una sintesi fra i due poli di linguaggio scritto e visuale è rappresentata in mostra dall’opera Lettera N come No del 1977. In questo lavoro l’artista viene fotografata nuda, mentre disegna con il suo corpo una lettera, come contemporaneamente accade con le Scritture viventi. Al gesto si unisce però il segno, elemento ripetuto come sfondo all’immagine, che diviene traccia astratta che perde la sua referenzialità. La gestualità del corpo si fa codice linguistico e parallelamente la forma testuale scritta diventa immagine.
La mostra ha il merito, inoltre, di proporre anche opere di Binga realizzate durante gli anni Ottanta dove il medium pittorico si misura con la parte testuale. Il percorso offerto lungo questi due decenni rivela così un rinnovamento dei mezzi a disposizione dell’artista, e in parallelo la continuità di una ricerca focalizzata sul linguaggio e sui suoi connotati simbolici e politici, condensati in quella che l’artista chiama “scrittura sublimale”. Relativamente a questa definizione, afferma Binga in un’intervista a Cristiana Perella (Flash Art no. 337 Febbraio – Marzo 2018 1): “volevo che agisse dentro di noi senza la distrazione del significato corrente delle parole e senza essere frastornati dal suono delle parole stesse: una scrittura silenziosa”.