La mostra personale di Gianni Politi “Benvenuto (anima del pittore da giovane)” conclude una trilogia avviata nel 2018 sotto la curatela di Marcello Smarrelli, che ha chiamato al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro tre delle voci più note della generazione italiana nata a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta attive nell’ambito della pittura (Thomas Braida e Matteo Fato gli altri due).
Politi accorda l’articolazione degli spazi espositivi – il loggiato dell’ex Pescheria e la contigua chiesa del Suffragio – alla dialettica intorno a cui gravita il suo lavoro, quella fra figura e astrazione che costituisce allo stesso tempo una dicotomia classica nella storia del medium. Nel portico ottocentesco, dall’andamento longitudinale, è allineata una teoria di dodici dipinti, tutti eseguiti nel 2019 e appartenenti a una delle serie più consistenti nell’opera dell’artista. La sua origine nel 2012 si deve al ritrovamento fortuito di un’immagine, un ritratto dell’artista bolognese Gaetano Gandolfi, Studio di un uomo con la barba (1770), che si rivela come un’epifania per Politi a causa della somiglianza con il proprio padre scomparso. Il ciclo di tele – qui tutte dello stesso formato – rielabora questa Urbild in una ridda di variazioni compositive, cromatiche, di tocco. “Reiterazione infinita di un inevitabile fallimento” (come scrive Davide Ferri nel bel testo che accompagna la mostra), la serie testimonia il tòpos del pittore che dipinge un unico quadro: per quanto carica di simbolismo psicologico, l’immagine diventa pretesto per un esercizio sulla differenza e la ripetizione. Il ritmo uniforme della sequenza è rotto da un elemento scultoreo collocato a terra, a mo’ di battiscopa: un rilievo bronzeo che porta molteplici immagini di scorpioni, riferimento alla tragedia shakespeariana Macbeth, in cui il protagonista descrive la propria mente come “piena di scorpioni”.
Un’apertura laterale consente l’accesso all’ampia aula dodecagonale dell’ex chiesa seicentesca. Lo spazio centripeto è imperniato sulla presenza centrale di un monolite (la cui apparenza rocciosa si rivela in realtà simulata) che reca tracce di pittura distribuita in maniera informale. Attorno a questo menhir – che invoca una dimensione primigenia dell’atto pittorico – ruota un altro ciclo di cinque dipinti (tutti risalenti al 2018). La seconda direttrice del lavoro di Politi, quella astratta, nasce dal reimpiego di frammenti di tela scartati nel processo esecutivo e recuperati dal pavimento dello studio in cui sono caduti. Nata dal fallimento, essa emana una minacciosa sensualità orbitante intorno a un nucleo centrale nero, che emerge per risparmio dalla sovrapposizione dei supporti, considerato dall’autore “assenza e ultima forma di astrazione”.