La prima retrospettiva di Donald Judd negli Stati Uniti dopo trent’anni – intitolata semplicemente “Judd” – attraversa l’intera carriera dell’artista e presenta settanta lavori tra sculture, dipinti, disegni e stampe, dai primi dipinti ai parallelepipedi in alluminio smaltato. Indipendentemente dai diversi medium con cui l’artista ha operato, la mostra nel suo insieme restituisce un chiaro senso del processo artistico profondamente radicale di Judd. Avere un altro “esecutore” dell’opera, senza tracce della mano dell’artista né espressività, era pressoché inedito negli anni ’60.
Ma non è stato sempre così. All’inizio degli anni ’60 Judd realizzava dipinti astratti. Untitled (1960) è un dipinto a olio giallo, di dimensioni modeste, con una linea biancastra e sinuosa che lo attraversa come fosse uno spaghetto solitario. Mentre questo lavoro suggerisce giocosità – non avevo mai visto prima un dipinto di Judd ed è stato un inizio a sorpresa per la mostra –, altri lavori giovani già prefigurano i suoi futuri oggetti austeri. Untitled (11-L) (1961–69) è una delle ventisei xilografie su carta in forma romboidale di colore rosso, che ricorda un diapason. In mostra troviamo anche la versione tridimensionale di quest’ultima, insieme a un paio di schizzi preparatori, che rivela il processo sistematico di ideazione di Judd. In questo periodo Judd scrisse il saggio “Oggetti specifici” (1965), in cui manifestava tutta la sua frustrazione per la pittura e la scultura delineando la sua filosofia estetica. Sebbene non sia un manifesto minimalista in sé, molte delle tecniche riduttive del movimento – il controllo attento della forma, le dimensioni e l’aspetto materiale, senza alcuna fabbricazione – sono delineate qui.
Nel 1964, Judd aveva già iniziato a realizzare lavori che soddisfacessero quei vaghi desideri verso gli “oggetti specifici” (né pitture né sculture) descritti nel suo saggio. Untitled, una grande scatola di plexiglas arancione e acciaio laminato a caldo, si trova semplicemente sul pavimento del museo, mentre un’altra opera, sempre un Untitled del 1965, indica quella che potrebbe essere la forma più nota nell’opera di Judd: una serie di sette parallelepipedi impilati di ferro zincato che sporgono dal muro.
Questo lavoro manca del colore e dell’eleganza delle successive “pile” di Judd, ma costituisce di fatto il capostipite di quella serie, aggiungendo una certa completezza alla retrospettiva.
Durante gli anni ‘70 e ’80, Judd produsse opere che sarebbero diventate note come “minimaliste”, un’etichetta che l’artista non accettò. Opere come Untitled (1977), una scatola aperta in acciaio inossidabile delle dimensioni di una mensola con un retro in plexiglass rosso, appesa al muro più o meno all’altezza della testa, arrivano più tardi marcando l’estetica del movimento. Negli anni ’70, Judd iniziò a produrre opere realizzate in compensato, come la serie di sei scatole aperte a dalle impressionanti dimensioni (182 × 363 × 182 cm). Privi dello sfavillante valore di produzione delle opere in metallo e plexiglas, gli oggetti in compensato presentano un’accessibilità assente in altri pezzi, amplificata dai mobili – sempre in compensato – dispersi qua e là nella mostra. In tutta l’opera di Judd, tuttavia, un elemento essenziale è il volume vuoto o cavo.
Lo spazio vuoto è circoscritto da plexiglas, metallo o legno, permettendo a luce e ombra di rifrangere il loro fascino naturale sugli oggetti. Il modo in cui i colori, le superfici e le forme degli oggetti specifici di Judd interagiscono con l’ambiente indicano la fenomenologia dell’esperienza visiva – visibilmente vibrante nei ventiquattro piedi di Untitled, (1991). È qui, al di fuori della capacità dell’artista di progettare e definire la sua opera, che la magia del Minimalismo accade, quando il “semplice senso delle cose” – prendendo in prestito una frase meravigliosamente ambigua da Wallace Stevens – si irradia nello spettatore.