Stephanie Oursler e “Il segreto del Padiglione d’oro”: una mostra autobiografica di

di 8 Ottobre 2020

Era l’ottobre 1979 quando, alla galleria Multimedia di Erbusco a Brescia, si tenne la mostra personale di Stephanie Oursler “Il segreto del Padiglione d’oro” (conosciuta anche con il titolo originale di “Welcome to Harrisburg1”), curata da Romana Loda, gallerista e curatrice già impegnata nella diffusione dell’arte femminista. L’origine del rapporto tra Oursler e Loda risale al 1975, anno in cui l’artista americana tenne la sua personale “Happy New Year” alla Multimedia, partecipando inoltre alla collettiva “Magma” (nella sezione La donna: condizione/protesta), organizzata al Castello di Iseo.

“Il segreto del Padiglione d’oro”è caratterizzata da una forte componente autobiografica, elemento ricorrente nella produzione artistica di Oursler come attestano, ad esempio, la performance Time rites, realizzata nel 1976 alla Cooperativa Beato Angelico, e il libro fotografico 5 Cuts. L’installazione presentata nella mostra del 1979 ha infatti come tema principale quello della “memoria”, rievocato attraverso una serie di costruzioni – volumi di un quarto di cilindro che rappresentano la scissione di una torre nello spazio – concepite come piccole stanze. Tale scelta si collega a un discorso più ampio, all’epoca al centro del dibattito critico femminista, legato al ruolo della donna all’interno dell’ambiente domestico, storicamente concepito come luogo femminile per eccellenza.

A ogni stanza corrisponde un lasso temporale di cinque anni, fatta eccezione per l’ultima, che rappresenta un unico anno (l’artista ai tempi della mostra aveva 41 anni, le stanze in totale sono nove). Ognuna contiene inoltre scenografie e oggetti che mettono in scena episodi che Oursler intende narrare ai visitatori, per potere offrire loro una chiave di lettura utile alla comprensione e all’interpretazione del proprio vissuto. In tale scenario, il pavimento si presenta ricoperto da un fitto strato di trucioli in legno, tutti colorati di viola, e al centro della sala è posto un cerchio diviso in quattro spicchi, riempiti a loro volta da trucioli di colore rosso, verde, blu e bianco. Ogni spicchio corrisponde a una perdita subita da Oursler durante la propria vita: la morte della madre, del padre, della nonna e della bisnonna, episodi che l’hanno segnata nel profondo e che si ricollegano ai contenuti delle stanze sovrastanti.

Le stesse stanze, al pari del pavimento, hanno come colore predominante il viola – affiancato dal giallo fluorescente – e in ognuna spicca uno dei colori presenti nei vari spicchi del cerchio sottostante, a voler sottolineare il collegamento con gli eventi a cui essi alludono.

Altro elemento comune a tutte le costruzioni, che si compongono di due lati lineari e da uno curvo, è la presenza su quest’ultimo, accanto al numero di riferimento, di un bossolo di mitragliatrice inserito in un foro. Se si sfila il bossolo dal foro, si può inserire una pila per illuminare l’interno della stanza, potendo così osservare, attraverso i forellini dei vari numeri, quel che essa racchiude. L’idea del foro come unico mezzo per entrare in contatto con l’opera, richiama alla mente l’installazione Spia Ottica realizzata nel 1968 da Giosetta Fioroni, in occasione del “Teatro delle Mostre” alla galleria La Tartaruga. In quel caso si trattava di un buco praticato nella parete, al quale era stata applicata una lente, come negli spioncini delle porte, attraverso cui si poteva sbirciare l’attrice Giuliana Calandra mentre si muoveva in una stanza della galleria allestita come fosse una camera da letto. Si tratta, come è ovvio, di due lavori differenti: nel caso dell’opera di Fioroni, infatti, un’attrice è invitata a simulare i gesti quotidiani compiuti dall’artista nella quotidianità. Ma la tipologia di fruizione è simile: in entrambe, infatti, gli spettatori spiano attraverso una fessura, trovandosi nella posizione del voyeur all’interno della vita quotidiana di Fioroni e nei ricordi di vita vissuta di Oursler.

Quanto alle scenografie contenute nelle singole stanze, queste, nel dettaglio, sono costituite da due oggetti che si riferiscono all’infanzia dell’artista cioè una minuscola altalena di legno pendente dal “soffitto” e un dondolo in miniatura, formato da un bastoncino di legno in bilico su un perno, ai quali faceva da sfondo un ingrandimento fotografico. Proprio il medium della fotografia, che aveva già caratterizzato la produzione artistica di Oursler (in 5 Cuts, anno e in Un Album di Violenza, anno), assume particolare importanza nella rappresentazione del corpo femminile, componente centrale, com’è noto, della pratica di tante artiste militanti nei movimenti femministi. Nella prima stanza, ad esempio, il fondale è costituito da una foto pornografica degli anni Trenta, che ritrae una donna nuda a cavalcioni di una testa d’orso. La scelta di lavorare su iconografie legate alle immagini della pornografia – per quanto controversa – la accomuna a molte artiste della sua generazione, Natalia LL in primis.

Nella quinta stanza appare invece un fotomontaggio in cui un ghiacciaio rievoca le forme del corpo femminile, mentre nell’ottava è l’artista stessa ad apparire nuda, coperta solo da un agnellino stretto tra le braccia. Quest’ultima fotografia era peraltro già stata esposta nell’installazione Animals: my first love, con cui Oursler aveva partecipato alle collettive “Magma” (nel 1975 e nel 1977) e “Altra misura” (del 1976 e anch’essa, come la precedente, curata da Romana Loda). In sostanza, nell’esporre la propria nudità, Oursler intendeva superare lo stereotipo che vedeva il corpo della donna come mero oggetto sensuale, guardato e desiderato dall’uomo. Lo fa attraverso un autoritratto che riprende l’iconografia tradizionale della Madonna col Bambino, ma la cambia di segno, attraverso un processo di desacralizzazione.

Stephanie Oursler, Animals my first love , 1973 – 1975. Ambiente e fotografie. 100 x 200 cm. Fotografia di Vana Caruso. Courtesy Sandro Franchellucci.

Aspetto fondamentale de “Il segreto del Padiglione d’oro” è l’impossibilità di relazionarsi in alcun modo con gli oggetti presenti nelle stanze, foto incluse. L’unica interazione possibile è infatti quello dell’osservazione, consentita dalla luce che poteva penetrare soltanto sfilando il bossolo. In sintesi, per poter guardare le cose con oggettività per Oursler è indispensabile rimuovere la patina di dolore che le ricopre. Il tema della violenza caratterizza così nuovamente le creazioni dell’artista, che già in Un Album di violenza – pubblicato dalle Edizioni delle Donne nel 1976 – aveva mostrato le gigantografie di alcuni ritratti fotografici di vittime di femminicidi, estrapolati dal quotidiano Paese Sera, al fine dimettere in risalto l’oppressione fisica e psicologica subita dalla donne. Attraverso le fotografie e i piccoli oggetti che compongono le narrazioni delle stanze de “Il segreto del Padiglione d’oro”, invece, l’artista espone le violenze appartenenti al proprio vissuto, rimarcando le sofferenze e le prevaricazioni subite. L’opera chiude, simbolicamente, il cerchio di un percorso portato avanti con coerenza lungo tutto il decennio. Nel 1977, in occasione della mostra “Il Volto sinistro dell’arte”, Loda parla di Oursler come di “un’artista che si pone lo scopo di ‘raccontare’ la donna dall’interno, nelle infinite sfaccettature del disagio di una collocazione che ritiene non giusta in una società che usa da sempre ogni mezzo per opprimerla”2.

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Ludovica Cozza Caposavi