“L’identità oggi è una merce preziosa.” Con questa lapidaria dichiarazione Marco Conoci introduce il testo da lui scritto per “Oltre al volto”, sua personale ospitata negli spazi della neonata galleria Le Vite. Nove opere a parete sono installate ai quattro angoli dello spazio espositivo, là dove la luce batte, in prossimità di ampie finestre che si affacciano sugli scorci post-industriali del quartiere Affori, nella periferia Nord di Milano. Le opere, per lo più appartenenti alla serie “Human figure in the crowd”(2020), sono stampe fotografiche su carta fotosensibile non fissata, protette da un tessuto occhiellato in pvc nero, che oltre a fungere da imballaggio dell’opera, costituisce il dispositivo ostensorio che ne determina la distruzione. Allo spettatore è infatti concesso, tramite le stesse corde che assicuravano l’opera al proprio involucro, di sollevare il telo e rilevare l’immagine, esponendola ai raggi luminosi dai quali è minacciata.
Nel testo, l’artista descrive il processo di graduale sottrazione dell’informazione fotografica che lo conduce a realizzare ciascun esemplare di questo ciclo. Innanzitutto, Conoci seleziona tra foto documentative di rave e concerti quelle caratterizzate da un “piano d’ascolto,” inquadratura tipica della cinematografia che immortala, in mezzo a un pubblico, persone intente a volgere lo sguardo verso un soggetto fuori campo. In questo modo egli colloca il punto focale della sua opera in un vuoto situato oltre l’immagine. Successivamente, interviene digitalmente sulle fotografie con tecniche di manipolazione che ne aumentano il contrasto riducendole a un bianco e nero privo di sfumatura, in cui ogni fisionomia è negata. Infine, stampa le fotografie a contatto su carta fotosensibile non fissata, così che se esposte alla luce del sole continuino a svilupparsi, fino al punto in cui ogni figura venga riassorbita dal blu dello sfondo. In questo modo, attraverso il graduale allontanarsi della fotografia dal proprio fuoco, da ogni soggetto e da ogni figurazione, Conoci sottrae l’opera dal campo della rappresentazione, per renderla manifestazione del processo entropico in cui l’immagine diviene la propria negazione.
Il fatto che ogni esemplare in mostra sia multiplo di due – qualora acquistato il suo ciclo di vita viene riattivato – rende esplicita l’enfasi che l’artista dà alla natura processuale, più che oggettuale, dell’opera. Il dissolversi dei volti, baluardi di un’identità soltanto illusoria, si fa infatti metafora di quel “rompere il dominio dell’identità cosciente” che l’artista rivendica e che l’opera attua nel momento in cui lo spettatore riesce a “diventare il sole senza sapere di esserlo”; e si riconosce un tutt’uno con le immagini con cui stringe un rapporto di interdipendenza tale, che il proprio guardare, corrisponde a un letterale consumare e a un, meno letterale, essere consumati dall’opera.