Se è vero che il dialogo tra l’opera d’arte e lo spazio espositivo è uno snodo tematico importantissimo fin dalle riflessioni concettuali degli anni Sessanta, ci sono artisti che più esplicitamente di altri si misurano su questa relazione.
La mostra di Markus Schinwald presso la Fondazione Coppola di Vicenza è innanzitutto la storia di un confronto serrato, decisamente riuscito, tra l’arte e il suo contesto. Uno spazio complesso, fortemente caratterizzato e letteralmente ‘faticoso’, come nota il curatore Davide Ferri riferendosi al suo sviluppo verticale: cinque piani di un torrione trecentesco percorribili solo risalendo numerosi scalini, fino al cosiddetto osservatorio affacciato a 360 gradi sulla città. Un percorso di ascesa che coinvolge fisicamente lo spettatore, e che riesce a fare di un inevitabile senso di claustrofobia il suo punto di forza. Perché si tratta della claustrofobia tipica del teatro, elemento chiave della produzione di Schinwald fin dal memorabile Padiglione Austriaco alla Biennale di Venezia del 2011: la scenografia, la simulazione, la maschera, la protesi, i movimenti forzatamente coreografici sono gli ingredienti di un mondo inquietante, grottesco, a tratti disturbante ma sempre raffinato. Va in questa direzione la scelta di replicare attraverso una carta da parati su cartongesso il muro originale dello spazio, costituito da mattoni rossi: una delle specificità del torrione è quindi esorcizzata attraverso la sua ripetizione, vera e propria scenografia per tutti i media coinvolti nella mostra – pittura, scultura, installazione, video, performance. È l’artista stesso ad affermare, con una certa dose di autoironia, di ‘dipingere come uno scultore, e scolpire come un pittore’: il passaggio da un medium all’altro è consapevole e maturo – i confini tra le diverse tecniche sono volutamente mantenuti – ma nel suo insieme la produzione è sorprendentemente coesa.
Significativa, in questo senso, l’opera che apre la mostra: una serie di Marionette (2013) in movimento sono raggruppate in un angolo della sala, ciascuna con i propri fili, con il proprio nome, con le proprie espressioni corrucciate. Sono (anche) loro, i Misfits che richiamano il titolo: personaggi letteralmente ‘disadattati’ che si relazionano in maniera ambigua e problematica al proprio contesto – esattamente come accade nella più nota produzione pittorica, presentata nei due piani successivi della Fondazione.
A partire da dipinti ottocenteschi, Schinwald interviene con l’attitudine del restauratore sul rapporto con lo sfondo, tema centrale suo del lavoro: figure aristocratiche, prevalentemente femminili, sono ritratte in scene di interni con una forma di protesi che maschera parte del volto.
Nei due piani successivi, si trovano i due video Orient A e Orient B (entrambi 2011), presentati per la prima volta all’interno del Padiglione veneziano. In un’ambientazione gelida alla Lars von Trier, i performer si muovono in spazi industriali abbandonati: soffocati dalle barriere fisiche esistenti, cercano nuove possibilità di movimento – stralunati e assorti.
All’ultimo piano, la struttura del Torrione cambia prospettiva e si spalanca sulla città. L’artista risolve lo spazio con un allestimento ‘circolare’ alle pareti, che mette in dialogo interno ed esterno: una serie di stampe in cui sono riprodotti monumenti a personaggi celebri della cultura europea (musicisti, filosofi, scrittori), a cui è stata asportata la statua vera e propria lasciando solo il piedistallo (Monuments Series, 2009).
Al disegno, si affianca infine la scultura: cinque coppie di gambe di tavoli riassemblate in maniera ironica (Untitled, 2014-18), sembrano impegnate in una danza ambigua, in cui il disagio del non sapersi adattare allo spazio sembra finalmente fare pace con lo sfondo.