Alessandro Agudio è cresciuto alla Taccona, una frazione nel comune di Muggiò. Venticinque anni fa i genitori di Alessandro acquistarono un appartamento in un complesso di palazzine chiamato Residence Acquario. Chi scrive non ha mai visitato la Taccona; ma dai racconti di Alessandro emerge un paesaggio liminale, una campagna urbanizzata come se ne vede tanta nei film del cinema neorealista italiano.
Nei venticinque anni trascorsi al Residence Acquario, la famiglia di Alessandro ha costruito un proprio paesaggio domestico nel quale coltiva abitudini caratteristiche della piccola borghesia di provincia – per esempio, l’allestimento di suppellettili e oggetti decorativi come se quelli fossero gli attori di un tableau vivant. Alla Taccona non ci sono molte opportunità di perdersi in una folla cittadina e provarne l’ebrezza. Walter Benjamin racconta che, all’alba del Ventesimo secolo, gli abitanti delle nostre città si ritrovarono a prendere coscienza della folla come di uno spettacolo a loro del tutto nuovo; agli artisti, in particolare, toccò l’incombenza d’inventarsi i modi di rappresentare le nuove masse urbane. Ma, a studiare quelle messe in scena nell’appartamento al Residence Acquario, sembrerebbe che i familiari di Alessandro siano rimasti estranei allo shock causato dall’incontro con la folla – quei familiari ricercano l’ebrezza nell’interiorità del sé e, per estensione metonimica, negli interni che quel sé abita. Affollano la propria abitazione e in quella si perdono – tra gli oggetti come i soggetti di Benjamin tra i passanti; anziché crogiolarsi in sguardi rubati, benjaminiani amori a “ultima vista”, si deliziano di pittoresche micro-narrazioni dei quali sono i soli demiurgi. Arroccate come presepi blasfemi sui piani delle credenze, sui davanzali delle finestre, sulle mensole delle camerette, il solo shock che quelle messe in scena temono è l’accumularsi della polvere – che, appunto, shock non è. Nella folla cittadina si esperisce l’agorafobia; tra gli oggetti, a casa di Alessandro, la claustrofobia.
Situato al terzo piano, l’appartamento della famiglia di Alessandro ha due ampi balconi; e ai balconi si accede attraverso ampie porte-finestre. Attraverso i balconi e le porte-finestre, il paesaggio domestico e quello circostante diventano contigui. Le balle di fieno che popolano i campi intorno al Residence Acquario partecipano anch’esse nei tableaux vivants. Agli occhi dei familiari di Alessandro, gradualmente quelle balle appaiono come solidi platonici in un quadro di pittura metafisica; perdono l’odore pungente come pure la memoria della mietitura come rituale pagano; per Alessandro, perdono le ombre – ombre che erano state luoghi di primi nascondigli, primi baci, prime sigarette. Nei film del cinema neorealista italiano, la campagna ai limiti della città è sempre lo scenario dove si dà sfogo al “residuo”, il surplus di vita che la forma modernista della città di recente edificazione non può contenere: i regazzini corrono sempre dalla città verso la campagna, gli inseguimenti polizzioteschi seguono la stessa traiettoria, i sussurri amorosi – “Bruno, Bruno, Bruno mio!” – volano laggiù.
La resa della balla di fieno come scultura è pari alla reificazione del surplus di vita che si insegue nei luoghi ai limiti della città. È pari alla forza dello sguardo piccolo borghese che, estraneo allo shock delle masse urbane, sana le contraddizioni del paesaggio circostante addomesticandole nella messa in scena. L’artista che ricerca modi di rappresentare la provincia abbraccia quello sguardo e lo spinge al cortocircuito. Riconosce che nel tableau vivant domestico un surplus di vita c’è: la micro-narrazione è fantastica, evasiva; ma quel surplus è, al tempo stesso, una forma estrema di ennui – o, alla peggio, una deriva patologica. Riconosce che la campagna al di là delle porte-finestre non è sconfinata; che all’orizzonte giace la fabbrica, la tangenziale, la città – altra città. Riconosce, infine, che non è più possibile osservare la provincia con lo sguardo del bambino; il suo sguardo è dialettico perché ritrova, e di quello fa strumento, il sentimento di amore-e-odio che accompagna ogni memoria del proprio luogo natale.
Nell’anno in cui – no: non il collasso forzato dell’interiorità del sé con lo spazio interno delle abitazioni private
– nell’anno in cui la cultura alternativa italiana ricorda lo scioglimento dei CCCP Fedeli alla linea, il paesaggio messo in scena in questa mostra invita a rinterrogarsi su un’espressione resa proverbiale da una delle canzoni del gruppo: l’immagine poetica della “provincia paranoica”. Dai racconti di Alessandro, pare che alla Taccona la paranoia si palpi con mano. Pare, però, che si faccia sempre presto a dire che in tutta la provincia italiana la paranoia si palpi con mano. Pare che gran parte del paesaggio italiano, che è appunto una sconfinata campagna urbanizzata, sia intriso di paranoia. Però, se si guarda al contrario – dalla città, attraverso la tangenziale, i campi di grano, i balconi, le porte-finestre – ci si ritrova nuovamente al cospetto del paesaggio domestico. E lì ci si ricorda che, in fondo, è la famiglia – l’organigramma patriarcale riflesso nell’organizzazione degli spazi e delle attività quotidiane – che, per parafrasare Sigmund Freud, fotte irrimediabilmente l’inconscio del bambino dai tre anni in su.
– Michele D’Aurizio