Nel 1975 Pier Paolo Pasolini viene invitato a scrivere un testo critico su Ladies and Gentlemen, la serie di ritratti di donne transgender (male to female) realizzata da Andy Warhol su commissione del gallerista Luciano Anselmino, esposta tra l’ottobre e il dicembre dello stesso anno in una grande mostra a Palazzo dei Diamanti a Ferrara. Intorno a questa interessante vicenda ruota il saggio di apertura del libro Pasolini Warhol 1975, di Alessandro Del Puppo, recentemente pubblicato da Mimesis. Benché coinvolga due figure imprescindibili nella cultura del XX secolo, l’episodio è rimasto per oltre quattro decenni ai margini degli studi storico-artistici: si tratta di un periodo piuttosto lungo, che lascerebbe pensare a un processo di rimozione o a un punto cieco nella critica d’arte italiana, soprattutto se si considera la vasta mole di ricerche dedicate all’arte italiana degli anni Settanta pubblicata nell’ultima decade. Diversamente da altri Paesi, in Italia non si è radicata una tradizione di studi in grado di riflettere sui legami tra arti visive e omosessualità e sulla rappresentazione di identità che fuoriescano dal canone eterosessuale. Sono pochi i critici e gli studiosi che hanno guardato in questa direzione: Eugenio Viola, Michele D’Aurizio, Sergio Cortesini, autore, quest’ultimo, di un saggio sull’esperienza del “Fuori!” apparso lo scorso anno su Whatever. A Transdisciplinary Journal of Queer Theories and Studies. Ne parlo qui con l’autore del libro.
Alessandro Del Puppo: Come capita spesso, si inizia una ricerca motivati da un’insoddisfazione. Nel mio caso: conoscevo il testo di Pasolini da molte importanti edizioni, che però ripetevano sempre lo stesso errore. Quello cioè di pubblicarlo come “testo di presentazione” per la mostra di Warhol a Ferrara. In realtà, bastava aprire quel catalogo per capire che dentro c’era di tutto, ma non il testo di Pasolini. Quel testo comparve soltanto sei mesi dopo in una mostra semiclandestina aperta dopo la morte del poeta. Come erano andate davvero le cose? E cosa poteva c’entrare il Pasolini del 1975 con Warhol? Sono partito da queste semplici domande e ho provato a ricostruire le vicende intrecciando lettere e documenti. Non avevo certo l’intenzione di scrivere un saggio di critica omosessuale o queer. Non saprei come farlo e non pretendo di poterlo sapere. Ma mi sono reso conto che quei temi affioravano spontaneamente man mano che andavo avanti col lavoro: s’imponevano come una chiave di lettura – non l’unica possibile, direi, ma senz’altro quella che ci porta fino all’attualità. La strada insomma è aperta, ed è bene percorrerla.
Raffaella Perna: Pasolini e Warhol incarnano per molti aspetti visioni opposte e inconciliabili della contemporaneità. Pasolini interpreta le opere di Warhol attraverso le lenti della sua ideologia, di cui nel libro individui con lucidità i punti di forza, ma anche e soprattutto i limiti. Quali sono, a tuo giudizio, le motivazioni dell’incapacità di lettura di Pasolini?
ADP: Non parlerei di incapacità. Come sempre la forza di Pasolini sta anche nelle sue debolezze. Nel 1975 Pasolini è al tempo stesso attuale e postumo. Sferza la società del suo tempo usando categorie per certi versi spuntate, ed è per una singolare eterogenesi dei fini che si ritroverà a posteriori vestito con l’abito del profeta. A me interessava soprattutto una cosa. E cioè che si possono dire delle cose intelligenti (e Pasolini ne disse molte) anche quando ci si sbaglia. In questo caso: Pasolini stava proiettando sulle immagini di Warhol – una trabocchevole e sbalorditiva parata di duecento e più drag queen afro e portoricane – le categorie interpretative che lo avevano sin lì condotto ad argomentare il mutamento antropologico degli italiani moderni – cioè, in fin dei conti, di Pasolini stesso. Accusare però le figure di Warhol di essere prive di dialettica rivoluzionaria, stelle fisse – così lui scrive, con la zampata del poeta – come un’abside bizantina, significava sbagliare bersaglio. La differenza queer non poteva agire nel campo della Storia (come Pasolini stava cercando per un’ultima volta di raccontare, per altre vie, in Salò). Agiva nel campo della cronaca, nel vissuto, nel risvolto esistenziale – che non era solo quella carnevalizzazione che divertì un po’ tutti, nell’Italia del 1975. Warhol a suo modo l’aveva capito. Per la sua cultura, e la natura della sua stessa omosessualità, Pasolini non poteva capirlo. Non fino in fondo.
RP: Lo scorso settembre si è aperta a Milano la mostra “Casa Iolas Citofonare Vezzoli”, ideata da Francesco Vezzoli per rievocare gli spazi della villa nei pressi di Atene del gallerista e mercante Alexander Iolas, dove era custodita parte della sua importante collezione d’arte andata dispersa. Nel ripercorrere con estrema cura filologica la storia e la rete di relazioni che hanno portato alla nascita di Ladies and Gentlemen, hai messo in luce anche il coinvolgimento di Iolas, definendolo la “vera eminence grise” di questa vicenda. Qual è il suo ruolo in questo caso?
ADP: Come ogni eminenza grigia: agiva dietro le quinte. Faceva girare denaro, opere d’arte, artisti e ragazzi, da una casa all’altra, da una galleria all’altra e da un letto all’altro. Un’attività frenetica e affascinante, che ha intercettato un po’ tutti da una parte all’altra dell’Atlantico. E in mezzo buona parte degli artisti che giungeranno in Italia per il tramite suo e anche di Anselmino: Ernst, Man Ray, lo stesso Warhol.
È una storia in cui è bello poterci specchiare, come sa fare molto bene Vezzoli, ma che è molto più arduo ricostruire sul piano storico potendo contare su evidenze, dati, documenti. Quando ho iniziato a occuparmi di questa faccenda, alcuni anni fa, su Iolas non c’era quasi nulla. È stato necessario reperire informazioni da chi lo ha conosciuto, e sempre con le cautele del caso. Ma poi bisognerebbe risalire agli inizi, fino alla cerchia di Jean Cocteau, alla Parigi durante e dopo la guerra, al jet set degli anni sessanta. E poi andare avanti, almeno fino all’omicidio/suicidio irrisolto di Anselmino, trovato cadavere nel suo appartamento milanese nel 1979. Fossimo altrove, ne avrebbero già fatto una fiction.
RP: Sapendo parlare, insegna a tacere è il titolo del secondo capitolo del tuo libro, in cui affronti una stagione – quella del ‘77 – cronologicamente vicina a quella del primo saggio. Gli argomenti trattati coprono però uno spettro più largo di questioni: il linguaggio della critica d’arte e le sue metafore bellicose (“nuclei di sensibilità armata”, scriveva Achille Bonito Oliva su Domus nel 1978); il movimento studentesco con le esperienze di Radio Alice e “A/traverso”; la crisi del ‘77, che nel libro interpreti non soltanto come crisi di rappresentanza politica ma anche come “disperata afasia” del linguaggio; l’ingresso della Transavanguardia sulla scena dell’arte e del mercato. Al di là della vicinanza temporale, cosa ti ha spinto a pubblicare insieme questi due saggi? Cosa li lega?
ADP: Le vicende sono complementari. Pasolini che legge Warhol nell’ottobre del 1975 rappresenta, a mio modo di vedere, la parabola di un certo umanesimo novecentesco e degli stessi intellettuali che ritennero di agire per quel mandato. Ed è l’apertura a qualcosa di nuovo, in potenza: l’emersione di nuovi soggetti, la necessità di altre politiche. Bologna 1977 mise in scena questa stessa richiesta in forme farsesche. Fu l’espressione di una impotenza, anzitutto linguistica, come anche in termini di rappresentatività. Ma al tempo stesso costituì una potenza creativa, che avrà seguito negli anni Ottanta. Ed è proprio quello che, su queste basi, vorrei continuare a studiare.