News, riflessioni, fortune storiche, critiche ed economiche sul mercato dell’arte in Italia. Una rubrica a cura di Stefano Baia Curioni.
Qualunque rassegna dedicata ai rapporti tra produzione artistica e mercato in Italia è costretta a confrontarsi con le singolari contraddizioni che hanno accompagnato l’evolversi delle scene italiane – scene “plurali” perché ancorate principalmente allo sviluppo di diverse aree metropolitane – e il sistema globale dell’arte visiva con i suoi complessi mercati.
Il “sistema” globale dell’arte ha conosciuto una vera e propria esplosione in termini di addetti, di vendite, di istituzioni negli ultimi vent’anni, a partire dai primi anni Duemila.
Le 50 fiere d’arte che si potevano contare nel 2005 sono diventate oltre 360 nel 2020, il numero di musei si è moltiplicato, il valore complessivo del mercato dell’arte che nel 2009 era valutato poco più di 29 miliardi di dollari, nel 2020 ha superato i 50 miliardi di dollari, nonostante una riduzione di oltre il 20% dall’anno precedente in seguito alla pandemia. Oltre 300 mila imprese lavorano nel sistema con quasi 3 milioni di addetti.
Sono cifre spaventose che, per la loro stessa dimensione, mettono in discussione la natura culturale del sistema; che però solo parzialmente hanno trovato un riflesso nella realtà italiana. I dati sono abbastanza eloquenti:
– La maggior parte delle gallerie d’arte italiane impiegano da 2 a 4 addetti; 12 hanno più di 5 persone impiegate essendo in relazione con il mercato globale e solo 3 sono di fatto presenti su più sedi globali con risorse umane superiori a 20 persone.
– Le fiere d’arte contemporanea che nel nostro paese hanno mantenuto un ruolo abbastanza centrale sono di fatto tre: Bologna che negli ultimi anni ha mostrato segni di difficoltà; Artissima a Torino, ben resistente e curata; Miart a Milano, in ripresa dopo alcuni anni di marginalità. Nessuna di queste tre ha un’attrattività competitiva rispetto alle grandi fiere europee (Art Basel, Frieze London, FIAC!, ARCOmadrid, Art Cologne, Art Brussels) e di fatto tutte mantengono una rilevanza prevalentemente nazionale. Tutte le altre che hanno tentato di fare capolino in questi anni sono su posizioni di assai minore rilevanza, con l’eccezione di Verona che mostra segni di confortante vitalità.
– I musei di arte contemporanea hanno conosciuto una vague di costruzioni finanziate dal pubblico piuttosto significativa entro la prima metà degli anni Duemila (Castello di Rivoli, Mart, MAMbo, MAXXI, Madre) ma hanno poi incontrato sistematiche difficoltà a mantenersi e ben pochi altri epigoni in particolare con sostegni pubblici (a Milano il Pirelli Hangar Bicocca e la Fondazione Prada, a Torino Sandretto Reabaudengo tutte iniziative private).
– Le principali case d’asta hanno progressivamente disinvestito dalla realtà italiana e le grandi manifestazioni di mercato per l’arte italiana si svolgono a Londra e New York, con la presenza di un collezionismo italiano piuttosto importante e attivo.
In altri termini, il sistema dell’arte contemporanea in Italia ha partecipato solo parzialmente alla dinamica complessiva, pur in presenza di una rete di operatori e di collezionisti che negli anni Novanta avrebbero lasciato immaginare un destino diverso. Allo stesso tempo è necessario riconoscere che anche gli artisti italiani in questi anni – indipendentemente dalla loro qualità – hanno avuto un ruolo sulla scena delle mostre e dei mercati internazionali soprattutto grazie a maestri come Boetti, Paolini, Merz, Penone e pochi altri, come Cattelan. La generazione successiva di artisti già affermati come, solo per fare alcuni esempi, Roberto Cuoghi, Luisa Lambri, Francesco Vezzoli, Rosa Barba, Paola Pivi, combatte una partita difficile per stabilizzare la propria presenza su una scena internazionale nella quale i sistemi paese operano con assetti più strutturati.
Le ragioni di questa fragilità strutturale del sistema Italia per l’arte contemporanea meritano di essere ancora approfondite.
Certamente ha pesato la natura con cui le politiche culturali e di sviluppo urbano sono state gestite nel nostro paese. In molte città globali, le politiche di estetizzazione e di potenziamento dei settori creativi sono state praticate con intensità e con grandi investimenti, che sono passati anche dalla creazione di importanti centri espositivi e musei dedicati al contemporaneo.
Nelle città italiane, facendo forse parzialmente eccezione per Torino, Roma, Milano e Bologna, queste politiche non hanno trovato lo stesso livello di condivisione e raramente hanno assunto un livello di centralità paragonabile a quanto accaduto nei grandi centri urbani europei. Questa relativa “cautela” istituzionale ha riverberato i suoi effetti non solo nella rarefazione di musei e centri dedicati, ma anche negli interventi di sostegno al mondo delle gallerie e degli operatori dell’arte, che ancora nei mesi della pandemia non sono stati certo in prima fila nell’agenda del legislatore.
Diverso è lo scenario dei piccoli centri di produzione artistica, spazi indipendenti, collettivi, reti di artisti. Su questo fronte, seppur con una cronica carenza di sostegni, si riconoscono segni di grande vitalità, di passione e di competenza in molte realtà urbane italiane. Sperimentazioni promettenti, residenze, istituzioni private come l’ICA a Milano, azioni collettive, che segnano la profondità con cui la cultura artistica è vissuta anche e soprattutto dalle giovani generazioni.
Rispondendo a tali scenari, questa rubrica sul mercato dell’arte si prefigge due principali obiettivi: da una parte approfondire e seguire l’intreccio di fortune storiche, critiche ed economiche degli artisti italiani sulla scena internazionale, dall’altra e con grande piacere, seguire, presentare, narrare il “nuovo” che sta nascendo nelle diverse scene urbane del Paese, con la consapevolezza che esso rappresenta il cuore di una storia che merita essere scritta.