Quinn Latimer: Stanze di

di 15 Giugno 2021

“Tell me stories!” è una rubrica sulla scrittura, a cura di Manuela Pacella. Uno spazio in cui testi di e su diversi autori indagano la scrittura d’arte, sperimentale, interdisciplinare, creativa e non.

Perché certe immagini ci accompagnano per anni? Perché una cartolina, una fotografia, una fotocopia, una scritta prendono posto, anno dopo anno, accanto a una scrivania, su un muro, su un frigorifero e, casa dopo casa, ribadiscono una geografia immune ai cambiamenti altrimenti imposti dai traslochi, cosicché, senza nemmeno alzare lo sguardo, ne possiamo sentire la presenza? Sembrano trovare la loro posizione quasi per caso, ma il luogo che occupano ha sempre qualcosa di fatale e, per questa ragione, quando vengono spostate o sostituite richiedono gesti ben ponderati.
Sono immagini che quasi non guardiamo, ma che hanno un ruolo di nota al margine, come se fossero delle didascalie a cui ricorriamo per ricordarci chi siamo e, per lo più, sono indecifrabili agli altri, che al massimo ne possono percepire la bellezza, ma non la necessità e, soprattutto, l’appartenenza a un dato ambiente (il motivo per cui quella cosa è proprio lì, e non altrove).

Like a Woman è un libro pieno di queste immagini. Intendo: di parole disposte come immagini, che ricorrono e si rincorrono da una pagina all’altra e che sembrano avere una simile funzione magica, quella di aprire nel tessuto narrativo uno squarcio che vi faccia precipitare un altro tempo e un altro luogo, imponendo una diversa articolazione del soggetto che scrive in relazione all’oggetto di cui scrive.
Quinn Latimer è nata in California, ha studiato a New York; la scrittura critica è stato un modo per trovare, dopo gli studi, la propria voce: le sue recensioni appaiono su Frieze e Artforum; ha curato monografie di artisti; è stata curatrice delle pubblicazioni per documenta 14 ad Atene e Kassel. L’insegnamento l’ha portata in Svizzera: nel cuore dell’Europa, ma anche un luogo dal quale chi ci vive parte e torna, continuamente. Like a Woman è il suo secondo libro; i saggi e le poesie che lo compongono raccontano anche dell’autrice, dell’infanzia, del presente e del modo in cui il tempo e lo spazio ci plasmano.
La costa della California (la sua luce), il mare che è l’Oceano ed è anche l’Egeo, la madre (“Are we destined/To discuss our mothers forever?”1), le madri, l’Europa (le sue città, le sue distanze così ridotte rispetto alla vastità del paesaggio americano, la sua storia così presente), Atene (che è un’idea, prima di essere una città) sono figure dell’Io narrante attraverso le quali la descrizione di un’opera, un testo critico, l’analisi di un edificio, la recensione di una mostra si aprono per assumere forma di poesia, di saggio, di pamphlet, di preghiera e uscire dalla pagina, diventando voce – perché ogni testo di Quinn Latimer è scritto per essere recitato – e una eco che attraversa i diversi testi che compongono la raccolta, una sorta di meta-racconto. Ed è seguendo queste tracce disseminate nei testi che una raccolta di saggi diventa un diario, o un romanzo, e apre nuove possibilità a una scrittura al cui centro c’è il corpo dell’autrice.

Oralità e racconto di sé sono del resto cifre certe di una scrittura situata, “Language that / Like a woman/ Pours itself from vessels /Like a woman2 ma, vorrei dire, anche di una speciale inclinazione.
L’io – avverte Virginia Woolf in A Room of One’s Own – proietta attorno a sé un’ombra che può oscurare il testo. Ma nella scrittura di Quinn Latimer questo pronome Io invece di restare eretto al centro della pagina, si sporge all’esterno, esce da sé per avvicinare l’oggetto a cui si rivolge e piegarsi verso lo spettatore a cui è destinata la storia narrata (“I guess I am getting closer to my subject: privacy’s relationship to thinking and thinking’s medium, writing. Private papers, etc. The writing subject. The internal voice we write in, its pleasure. The language – mine¬ that uses you as vessel. Invading your privacy, as we say. Broadcasting my own”3).
Per Adriana Cavarero l’inclinazione come movimento che rompe la verticalità dell’Io per porlo in relazione con l’altro apre a una dimensione politica: la diagonale descritta – un corpo che si sporge verso un altro – è un segno di cura e attenzione4 che può ridefinire il senso dell’esistenza. Penso che Latimer intenda in maniera simile il suo impegno con e attraverso la scrittura, quando dichiara di scrivere da una posizione femminista. Più precisamente – parlando del suo ruolo di curatrice delle pubblicazioni che hanno accompagnato documenta 14 e che più o meno corrisponde all’arco di tempo in cui sono stati scritti i saggi raccolti in Like a Woman – si definisce feminist editor che, tradotto, significa redattrice, curatrice, ma anche: montatrice.

Il montaggio, dice Walter Benjamin, ha sempre una qualità critica perché spezza la linearità del racconto: nella scrittura di Latimer, che poggia sempre sulle immagini e che si prefigura come suono (allitterazione, assonanza, l’alternarsi di parola e silenzio, lo spezzarsi della frase in verso sono modi ai quali la scrittrice plasma la parola come ritmo), il montaggio le permette di tenere insieme diversi piani: l’ekfrasis, che è la prima forma di critica d’arte, il giudizio o racconto che ne consegue, il “bisbiglio della quotidianità”5 e l’altra quotidianità che le è offerta da quelle voci che hanno modulato la sua: Joan Didion, Anne Carson, Susan Sontag, Hannah Arendt, Chantal Ackerman (le madri). Il montaggio rende cioè possibile muoversi continuamente dentro e fuori la vita. La sua è una scrittura che non prescinde mai dal tempo e dal luogo in cui prende forma. È una scrittura che sente e accoglie “la gioia dell’influenza”6. Che mette in relazione cose apparentemente distanti e che si somigliano (To bring together what belongs together: il fato del collezionista, secondo Walter Benjamin).
Questo andirivieni di immagini, che assomiglia al modo in cui funziona la memoria, è anche la cifra stilistica dell’artista e film-maker Moyra Davey a cui è dedicato un saggio e il cui nome torna in altre pagine e certo sembra che parlando del suo lavoro Quinn Latimer parli del proprio (il racconto di sé attraverso il racconto dell’altra), delineando un orizzonte di riferimenti che le avvicina: Benjamin, Barthes e Sontag, poi Duras, Woolf and others. Gli artisti di cui scrive Latimer in questo libro hanno in comune, o così mi sembra, una sconfinata fiducia nelle immagini o nella necessità della loro articolazione spaziale, la capacità di restituirle come materia viva, una propensione al racconto (una fiducia nel racconto) che nasce dall’incontro tra due fotogrammi e un modo simile di stare dentro le immagini. Nei film di Moyra Davey la sua inconfondibile voce (che ha un registro così diverso da quello di Latimer), il corpo che entra nell’inquadratura, i luoghi della sua quotidianità connotano e permeano il racconto e impongono alla telecamera una continua oscillazione tra interno ed esterno, spazio privato e spazio pubblico. Così in Ackerman le vicende personali sono la trama che rende possibile ogni inquadratura. Così in Farocki il corpo dell’autore accosta, taglia, separa sequenze visive che la sua voce commenta. Così in Latimer l’incongruo incontro tra la natura subtropicale di Los Angeles e una comunità di tedeschi espatriati – Brecht, Mann, Adorno, Horkheimer – è anche il modo per ritrovare attraverso le Elegie di Hollywood di Bertold Brecht, il paesaggio vissuto nella propria infanzia.

Quella di Latimer è anche una scrittura che, mostrandoci la sua intelaiatura, ci permette di diventarne parte: “This is where I – and the text you are reading now – enter the picture, as they say. Or perhaps the frame: its page”7. È frequente che il lettore sia richiamato direttamente attraverso l’appello a un ‘tu’. Ci incontriamo attraverso le pagine del libro: è una specie di intimità, ribadita dai pronomi – io, tu e lei – che sono a volte intercambiabili e ridistribuiscono i ruoli tra chi scrive e chi legge e la materia che è oggetto del testo. Una intimità che si fa più evidente in un testo che mi sembra centrale nella raccolta e che è dedicato a Blake Latimer, la madre dell’artista, nel tentativo di metterla in figura ma con il pudore di non farne materia letteraria: “But who was she? She was a person I read and I read now”8. Come si racconta una vita? Una vita è la somma di una serie di dati di fatto – date, luoghi, nascite, morti, incontri, abbandoni, letture. Il resto è il riverbero di cosa significa quella vita, nella nostra vita. (Detto per inciso, questo testo mi sembra stare in una relazione particolare con quello dedicato a Moyra Davey).
L’intimità è anche una categoria spaziale: all’uso della prima persona singolare e al richiamo diretto al lettore, corrisponde una precisa indicazione del luogo da cui nasce la scrittura. Da dove si scrive? Quinn Latimer lo indica sempre: è lo spazio vuoto in cui la parola pronunciata diventa suono, è lo schermo del laptop, una scrivania: “I write this to you from a place of privacy, as I mostly do”9, è la pagina stessa. Stanza in inglese significa strofa, ricorda Latimer. La parola è uno spazio.

Torniamo alle immagini. Perché certe immagini ci accompagnano per anni? Sulla copertina di Like a Woman compare un lavoro di Hagar Schmidhalter del 2013, intitolato 197. Riappare anche a pagina 227, a chiusura del libro, come a ribadire che un’immagine è un equivalente di una parola, che le parole sono suscitate dalle immagini, che alcune immagini fanno parte di una vita e non solamente di un esercizio critico. Che immagini? Opere, come questa, che appartiene all’artista, che si trova nella sua forma originale nella sua stanza e che spesso innesca un pensiero. O cose, come una piccola tessera di ceramica decorata con un cane, simbolo di fedeltà e vita domestica, posata sul davanzale di una finestra, accanto a due fotografie (l’autrice bambina in braccio alla madre, seduta davanti alla macchina da scrivere; il padre, su un divano, mentre legge), un biglietto di auguri con disegnata una mappa astrale, un ritratto di Jean Arp che guarda attraverso un disco e altre ancora che, messe l’una accanto all’altra, si illuminano di un colore speciale e creano un sistema semantico. O due cartoline che la seguono dai tempi della laurea – una riproduzione di Wade Wave di Ryan Mc Ginley del 2004 e una, dipinta a mano, delle scogliere di Dover – che Quinn Latimer posiziona sempre sopra la sua scrivania e che sembrano descrivere due qualità di paesaggio al quale la sua scrittura ci ha abituato.
E altre immagini ancora che appaiono in questo testo e iscrivono all’interno di questo spazio altre stanze.

Altri articoli di

Cecilia Canziani