Nel 1991 Lea Vergine curò un convegno dal titolo “Arte, Utopia o Regressione?”. Vi presero parte artisti, critici e storici dell’arte come Giulio Carlo Argan, Jole de Sanna, Tommaso Trini, Maurizio Calvesi, Fabio Mauri. L’evento si tenne al Teatro Titano della Repubblica di San Marino e rappresentò un’occasione per ridiscutere i rapporti tra la critica d’arte e le altre discipline, muovendo da una chiara alternativa: da una parte il progetto di secolarizzazione delle avanguardie, centrato sull’autonomia dell’arte e sulla possibilità di un cambiamento reale, dall’altra, l’anti-ideologismo postmoderno, la nostalgia di un passato irrecuperabile, il meccanismo affettuosamente perverso della regressione. Tra i relatori, uno dei pochi che deviò dall’alternativa proposta da Lea Vergine fu Corrado Levi che, nel suo intervento “Arte: cosa?”, affermò la necessità di guardare ai “labirinti della cultura, del soggetto, della vita, delle forme”, alle disomogeneità e ai dislivelli, ai conflitti e alle interferenze. “A me serve che l’arte sia vista in un ambito di contraddizioni slittanti”, dichiarò l’artista, “con un suo ipotetico ruolo che è di connettere a chiarezza fulminante ed elaborare, ed è sempre sui due fronti del titolo del convegno, ma la su parte attiva è nell’essere nelle cose, che è già straordinariamente spinoso”1
A trent’anni da “Arte, Utopia o Regressione?”, l’invito a “essere nelle cose” avanzato da Levi sembra risuonare nei discorsi che accompagnano “School of Waters”, la 19a edizione della Biennale del Mediterraneo che, dopo più di mezzo secolo dalle biennali di San Marino – mostre ancora poco indagate nell’ambito dell’emergente disciplina della “biennalogia” –, riporta un evento espositivo internazionale nello stato sammarinese. Il team curatoriale composto da Alessandro Castiglioni e Simone Frangi, insieme a Theodoulos Polyviou, Denise Araouzou, Panos Giannikopoulos, Angeliki Tzortzakaki, Nicolas Vamvouklis, Giulia Gregnanin e Giulia Colletti, ha infatti immaginato la Biennale come una scuola nomade e temporanea che, oltre a decostruire stereotipi geografici e convenzioni di genere, mira ad organizzare nuovi sistemi di senso richiamandosi alla lezione millenaria delle acque. Sviluppata a partire dalla terza edizione di A Natural Oasis? – una piattaforma di ricerca collettiva per giovani artisti e curatori, supportata da BJCEM – “School of Waters” insiste sull’elemento acquatico come esempio tangibile di una relazionalità non antropocentrica e, assieme, come modello per suggerire dei possibili esercizi di esperienza dell’altro. Il richiamo alle acque, tuttavia, non è solo il richiamo a un senso di connessione profondo, tra noi e gli altri esseri, tra umani e non umani – perché l’acqua è sempre perdita del margine, è comunione e sconfinamento –, ma è anche un’esortazione alla complessità, all’ignoto e persino alla perdita di coordinate.
Nel mettere alla prova questi obiettivi, la Biennale accoglie l’eredità di una storica mostra come “Provoc’Arte, Provo Carte, Provocar Te”, una manifestazione espositiva curata nel 1991 da Roberto Daolio, con opere, tra gli altri, di Maurizio Cattelan, Eva Marisaldi e Cuoghi Corsello, generalmente considerata come il primo evento d’arte pubblica a San Marino. “School of Waters”, infatti, si radica e si diffonde su un’ampia area del territorio sammarinese: tra le strade del centro storico e nei giardini dell’antico monastero di Santa Chiara, tra le mura fortificate della Prima Torre Guaita e nel ridotto del teatro Titano, ma anche in luoghi meno noti e raramente aperti al pubblico, come le cisterne del Pianello: uno spazio medievale di oltre mille metri cubi situato sotto la pavimentazione del Palazzo Pubblico, sede del governo della repubblica. In questi ambienti, originariamente destinati alla raccolta e al filtraggio dell’acqua piovana, l’installazione site-specific Interlude (2021), di Marco Giordano, sembra risolvere poeticamente la maggior parte delle tematiche affrontate dalla Biennale. Si tratta di una serie di sculture in vetro, di vario colore, modellate a partire da forme organiche vegetali. Sospese su un contenitore d’acqua installato al centro della seconda cisterna e continuamente attraversate da vapore acqueo, le sculture assomigliano a misteriosi esseri primordiali avvolti in una sorta di nube vitale. L’installazione è inoltre accompagnata da una traccia sonora – scritta dall’artista e interpretata dal musicista e compositore Francesco Venturi – diffusa dall’acqua del serbatoio grazie a delle piccole casse installate all’interno. Immersiva eppure intima, fragile, sostenuta da un delicato equilibrio, l’opera di Giordano dimostra un’essenziale permeabilità tra mondi differenti, tra naturale e artificiale, tra organico e inorganico.
Negli spazi della Galleria Nazionale, invece, la mostra dialoga con la collezione permanente del museo, con le tele di Renato Guttuso e gli acquerelli di Luigi Ontani, e con opere come quella di Enzo Mari, Dialogo tra Fidia, Galileo, Duchamp, i sette Nani, l’Idiota (1986), una messa in scena paradossale dove si mescolano arte, scienza e finzione. Di fronte al teatrino impossibile di Mari, Pablo Sandoval presenta Masculino, cualidad del hombre (2018), un progetto post-fotografico nel quale affianca alcune immagini d’archivio dell’esercito spagnolo a fotogrammi tratti da film porno gay a tema militare. L’accostamento di Sandoval rivela come pose e atteggiamenti tipici della mascolinità – perfettamente incarnati dalle immagini dei soldati –, siano in realtà ripresi da una parte della comunità omosessuale che, sfruttando quel medesimo immaginario, finisce per reiterare e rinforzare i canoni imposti dalla società.
School of Waters, tuttavia, si fa anche testimone di una sempre più frequente incapacità, da parte degli artisti, a tradurre questioni cruciali, come il colonialismo o le migrazioni, in lavori che non risultino didascalici, informativi, o interamente “giustificati” dalla loro portata politica. Alcune opere esposte, soprattutto quelle basate su ricerche d’archivio, sono proposte in forme installative piatte, talvolta confuse, che nulla aggiungono alla lettura delle ricerche stesse, ma anzi la complicano, la indeboliscono. Sfuggono a questa precisa prassi, il lavoro di Annalisa Cannito, Lifesafer (2015), realizzato in collaborazione con Wendimagegn Belete e incentrato sulla campagna fascista “Oro alla patria”, e la scultura tentacolare di Binta Diaw, Uati’s Wisdom (2020) – una serie di finte ciocche di capelli neri, intrecciate tra loro –, che rimanda alla dea dell’acqua e della fertilità Mami Wata e alle culture matriarcali africane.
Il dialogo tra i lavori e i siti d’esposizione è particolarmente riuscito nel caso di io sono un disgraziato il mio destino è di morir in prigione strangolato (2020-21), l’opera presentata da Jacopo Rinaldi al piano terra della Prima Torre Guaita, in uno spazio dove, dalla metà del Settecento fino al 1970, venivano incarcerati tutti quei prigionieri che dovevano scontare pene non superiori ai sei mesi. Il lavoro di Rinaldi, parte di una ricerca più ampia, consiste in due elaborazioni digitali di altrettante fotografie scattate da Gaetano Bresci, l’anarchico che il 29 luglio del 1900 sparò e uccise Re Umberto I di Savoia. Ingrandite e stampate su una superficie riflettente, le enigmatiche istantanee che l’artista ha rinvenuto nell’archivio del Museo Storico dell’arma dei Carabinieri di Roma mostrano alcune persone in posa all’aperto, probabilmente amici o familiari del regicida. Un’altra opera che sembra essere stata concepita in relazione allo spazio d’esposizione è quella di Bora Baboci, installata in prossimità della Scala Santa nel monastero di Santa Chiara – un cunicolo circolare a gradini che le monache dell’ordine delle Clarisse percorrevano in ginocchio per espiare i peccati. In questi ambienti, che già ospitano un intervento site-specific di Enzo Cucchi realizzato tra il 1987 e il 1988, Baboci presenta Triptik (2020): una sorta di paravento decorato da un intreccio di rose bianche, quasi invisibile, che si ripete sulla tavola in legno come fosse una preghiera o una litania segreta, sussurrata nell’intimità della stanza.
Oltre alle numerose installazioni, ai video, alle sculture e ai dipinti, “School of Waters” offre anche un esteso programma di conversazioni, workshop, reading, proiezioni e performance. Tra queste, le escursioni sul monte Titano organizzate dal collettivo Altalena, che immagina il promontorio sammarinese come un’isola circondata dalle acque e invita il pubblico a una simbolica discesa negli abissi; la lecture performativa Buoy (2021) di Madison Bycroft, che immersə nell’acqua di una piscina esplora l’“ontologia del galleggiamento” e Anti-Gone (2020), di Theo Triantafyllidis, una performance in mixed-reality ambientata in uno scenario post-apocalittico e distopico dove i due protagonisti, Spyda e Lynxa, vagano stimolati dall’interazione con gli spettatori.
Se la selezione curatoriale e le soluzioni allestitive risultano pressoché impeccabili, una scelta che stride con il dichiarato approccio pedagogico della Biennale e con la stessa volontà di “decostruire gli stereotipi legati all’interpretazione eurocentrica dell’area mediterranea”2
è quella di pubblicare sia il catalogo (edito da Archive Books) sia le didascalie esclusivamente in lingua inglese. Oltre a tagliare fuori una fetta consistente di pubblico locale e nazionale, magari desideroso di approfondire i lavori esposti o gli argomenti affrontati, la scelta di esprimersi unicamente nella lingua franca del sistema dell’arte occidentale sembra non tener conto del fatto che, nel contesto mediterraneo, la lingua inglese ha sempre rappresentato l’idioma del colonizzatore: si pensi all’occupazione britannica dell’Egitto, andata avanti dal 1882 al 1952, ma anche alle colonie inglesi nelle isole di Cipro e Malta. A tal proposito, vale la pena ripescare il “pensiero meridiano” di Franco Cassano che, ritornando sull’espressione latina mare nostrum, scriveva che “il soggetto proprietario di quell’aggettivo [nostrum] non è, e non deve essere, un popolo imperiale, che si espande risucchiando l’altro al suo interno, ma il «noi» mediterraneo”3
. Un “noi” che aspetta di essere pronunciato con convinzione, contemporaneamente, in più lingue, come manifestazione di un intreccio radicale, di una coesistenza reale. Un “noi” plurale e irriducibile, controcanto di ogni purezza, di ogni integralismo. “Un «noi» pieno di altri”4.