L’idea razionalista di un ‘oggetto’ fa sì che ogni oggetto sia comunemente percepito secondo l’obiettivo per cui è stato ideato e poi adoperato, rispondendo al binomio forma-funzione con una sua conseguenza prestabilita. Tutta la pratica di Ceal Floyer lavora esattamente sullo scardinamento di questo modello ed è legata a un sottile procedimento di switch semantico capace di strumentalizzare un oggetto, la relazione tra più oggetti o i loro nomi comuni, per produrre nuove implicazioni percettive e linguistiche.
Per la sua prima personale alla Galleria Massimo Minini, Floyer si muove agile tra diversi tipi di rappresentazione e presenta sette opere che riconfigurano uno o più elementi e ne cancellano i connotati e l’aspetto pratico. Viewer (2011) è uno spioncino da cui guardare indisturbati il vialetto di ingresso alla galleria, che, installato su un alto infisso in acciaio e vetro, si annulla e perde la sua funzione – il controllo – per diventare una ‘scultura’. Chi percorre contemporaneamente lo stesso vialetto, guarda all’interno attraverso il vetro trasparente e osserva uno spazio a prima vista vuoto. Varcata la soglia, al centro della parete di fondo della sala, 2mx2m (2021) è un quadrato grigio a fasce verticali che, osservato da vicino, si scopre essere la riconfigurazione di metri a stecca sovrapposti e dispiegati per l’intera lunghezza – 2m è quella del metro più comune in commercio. Ai due lati, le pareti maggiori sono lasciate bianche, ma, sul pavimento ai piedi di quella sinistra troviamo Keep clear (2021), un nastro segnaletico giallo stampato a caratteri neri che invita a ‘lasciar libero’ un muro vuoto. Così, l’elemento del muro e quello del nastro diventano obsoleti se non si considera il loro nuovo modo di relazionarsi nell’opera.
Nella seconda sala, Hand Shadow Play (2021) consiste nella proiezione su uno schermo a muro di disegni bianchi su fondo nero in cui due mani spiegano come fare le ombre cinesi. Se si osserva bene, si nota che tutto è a rovescio, le immagini cui siamo abituati e il concetto stesso di ombra sono sottilmente smontati, ma non è subito percettibile il come. A 47 cm long dot (2021) è il risultato di un distanziatore con luce led appoggiato su una mensola appunto a 47 cm di distanza dal muro. È il puntino rosso di una data lunghezza, è una conseguenza razionale che sussiste solo quando la distanza è misurata. E ancora, nella terza sala, Dance (2021) occupa l’intero spazio. È un’opera costituita da due strobosfere a specchi dipinte con uno spray nero e due fasci di luce generati da faretti che ballano sul pavimento senza mai toccarsi.
Infine, Screw (2021), un filmato stock footage con soggetto un avvitatore nell’atto di compiere il suo dovere: avvitare una vite filettata in un tavolato di legno. L’inquadratura che scorre man mano a destra mostra un gesto irrazionale del tavolato che si avvicina alla vite. È una proiezione video in loop a tutta parete a ipnotizzare lo spettatore, che resta fermo a guardare più volte per capire ‘cosa c’è che non va’, e rapportare finalmente a un’immagine visiva il suono che ha ascoltato percorrendo l’intera mostra.