News, riflessioni, fortune storiche, critiche ed economiche sul mercato dell’arte in Italia. Una rubrica a cura di Stefano Baia Curioni.
Roma, per l’arte contemporanea è un luogo di assenze ed enigmi. Ha custodito scintille vivide, cardini della storia dell’arte contemporanea italiana ed europea, basti pensare a Carla Accardi, Alighiero Boetti, Pietro Consagra, Carla Lonzi, Luigi Ontani, Mario Schifano, per citare i più noti, ma non ha mai saputo o voluto acquisire un ruolo da “capitale” del contemporaneo.
La conversazione che segue, coinvolge Gaia Di Lorenzo, artista e fondatrice di CASTRO, uno spazio educativo sperimentale di Roma che sta acquisendo un riconoscimento crescente sulla scena, e Luca Lo Pinto, direttore artistico del MACRO. La conversazione insiste sulle caratteristiche di Roma come sistema di produzione di arte contemporanea, esplorando il mondo che sta al di là e prima del mercato, ma ne costituisce una controparte imprescindibile.
Roberto Scalmana: CASTRO nasce nel 2018 come spazio per l’educazione alternativa, dove gli artisti partecipano ad uno studio programme per produrre, ma anche incontrare e confrontarsi con altri artisti, curatori, il pubblico. Cosa ti ha spinto a fondare questo progetto?
Gaia Di Lorenzo: CASTRO nasce da un mio desiderio abbastanza semplice quale artista: rientravo a Roma dopo molto tempo, volevo uno studio e la possibilità di condividerlo con altri artisti, perché è anche importante per la mia pratica. Così, ho iniziato a pensare ad attività, a metodi, ad appuntamenti o situazioni di confronto che mi riportassero alle mie abitudini di Londra ma a Roma, la città dove volevo vivere. Poi il progetto è cresciuto e si è strutturato. Volevo creare una comunità critica per riuscire a parlare del lavoro di artisti e delle loro opere, a discuterne oltre le chiacchiere delle inaugurazioni. CASTRO ha un’elasticità e quindi un’identità mutevole a seconda degli artisti e dei ricercatori che ne fanno parte. Una specie di contenitore che muta forma a seconda di ciò che contiene.
RS: In qualche modo da Londra hai portato a Roma un metodo o un modo di fare. Mentre anche tu, Luca, prima del tuo incarico alla direzione del MACRO eri a Vienna come curatore alla Kunsthalle Wien. Con il “Museo per l’Immaginazione Preventiva” hai dato una forte identità all’istituzione romana. Cosa ti porti da Vienna?
Luca Lo Pinto: Alla Kunsthalle Wien è stato istruttivo avere l’opportunità di capire come funziona e quali limiti ha un’istituzione. Le Kunsthalle e le Kunstverein sono modelli di grande stabilità economica e di management, opposti al nostro. Al tempo stesso questo welfare culturale contribuisce a rendere gli stessi artisti quasi degli impiegati culturali. Poi il contesto viennese è diverso, ci sono delle ottime accademie, moltissimi studenti e tanti giovani artisti; rispetto a Roma c’è un grado di informazione e di conoscenza ben maggiore. Tuttavia il dibattito è sempre molto canalizzato e alla lunga può essere noioso; in tal senso preferisco l’irregolarità. Sotto questo profilo, a Roma c’è una dimensione più anarchica. Sono cresciuto con artisti più grandi come Emilio Prini, Luigi Ontani, o Enzo Cucchi, ed è interessante come rivendicano il ruolo di Roma rispetto alla semplificazione e gentrificazione culturale provocata dalla globalizzazione a livello di linguaggio artistico. È qualcosa che ti dà forza, alcune volte. Per me, fin dall’inizio, scegliere di lavorare con gli artisti, fare libri, pubblicare una rivista è stato un modo per trovare uno spazio di libertà e indipendenza. Il progetto del MACRO è legato all’idea di trasformare il museo in un’unica grande mostra, una forma e un luogo di produzione culturale. Il “Museo per l’Immaginazione Preventiva” si ispira all’Ufficio per l’Immaginazione Preventiva, creato a Roma nel 1973 dagli artisti Carlo Maurizio Benveduti, Tullio Catalano e Franco Falasca. Il programma si sviluppa come la continua attività di un magazine tridimensionale, con proposte di varie discipline, ponendo al centro gli artisti e il loro pensiero.
GDL: È vero che a Roma c’è meno struttura, conoscenza specifica e quindi in un certo senso più libertà. Ma a volte la mancanza di linguaggio — non di opinioni, ma proprio di linguaggio — impoverisce le conversazioni. Me ne accorgo quando facciamo i crits da CASTRO. Le strutture che si occupano di didattica nell’arte in Italia dovrebbero concentrarsi di più a tramandare un linguaggio critico anziché tecniche plastiche.
LLP: Sono d’accordo. Il mio non era un elogio. Nel programma del museo c’è un’insistenza sulla musica sperimentale, sulle immagini in movimento, sul suono, sulla grafica, sull’editoria, che aprono un bacino, per portare a Roma delle posizioni che sono molto rilevanti all’estero, o quantomeno attuali, senza essere autoreferenziali. Penso alla mostra “This isn’t Theory. This is History” di Tony Cokes, un artista molto affermato e conosciuto all’estero, mentre in Italia molto meno, nonostante affronti tematiche centrali per questo momento storico.
Quando è nato NERO nel 2004, volevamo creare qualcosa di opposto, una presa di posizione: fare qualcosa d’altro che non avesse la voce delle istituzioni, per creare un’alterità di sguardi. Oggi nelle nuove generazioni percepisco un altro spirito: c’è più voglia di dialogo e meno di antagonismo. Ma siamo su un crinale sottile, specialmente mancando continuità e struttura.
GDL: In molti mi dicono che a Roma ci sono sempre scintille potenti, però non si riesce a tenere il fuoco vivo. Per farlo serve anche qualcos’altro. E io vado al sodo, cerco di essere pragmatica: servono i fondi affinché una cosa continui nel tempo. Lo vedo con CASTRO, passiamo più tempo a chiedere contributi a privati che a costruire la programmazione. Invece nel momento in cui ci si rende conto che un’iniziativa funziona, che crea valore culturale e una sua comunità, bisogna sostenerla con fondi ed iniziative anche pubbliche se si spera in una continuità.
RS: Ci sarebbero tante iniziative e incentivi di cui si servono artisti e progetti in molte altre città europee. Penso a convenzioni agevolate per gli spazi, per esempio, perché l’affitto è un costo importante da sostenere.
GDL: In questo senso ho provato ad attivarmi, senza però mai riuscire. Basterebbe un luogo in disuso che viene concesso per qualche anno a fronte di alcuni lavori per sistemarlo. Pare che ci siano ostacoli a questa idea semplice o altre forze che evidentemente io non comprendo.
LLP: C’è un esempio positivo rispetto al dialogo con la politica a Roma ed è il caso dell’Associazione Piccolo America con il Cinema Troisi. Comunque è chiaro che per evitare che si esaurisca la scintilla serve un supporto politico ed economico, ma per avere continuità serve anche una visione, mentre spesso tutto è legato ai singoli individui e non si creano le condizioni per dare una prospettiva continuativa e di lungo periodo. Il Pompidou agli occhi delle persone è il Centre Pompidou, pochi sanno chi sono Bérnard Blistène, o che è stato diretto da Pontus Hultén, perché l’identità del Pompidou va oltre chi lo dirige. Ciò non esclude che ci possano essere figure che danno una linea autoriale più forte di altre. Fornire un’identità a un’istituzione significa darle un profilo riconoscibile che non sia assolutamente effimero. Ad esempio, il MACRO da quando è stato aperto non ha avuto un’identità e io stesso sto contribuendo a cambiarla, ma perché sono forzato a farlo. Nonostante credo nell’autorialità della curatela, il museo ha sempre la priorità. In ogni caso, dipende da cosa si ambisce, personalmente far avvicinare le persone ad oggetti culturali ai quali magari non avrebbero mai avuto accesso è un’urgenza primaria per quello che faccio.
GDL: Ci si dimentica che c’è un lato più genuino e meno costruito di questo lavoro. Ero felice alla notizia di averti come direttore del MACRO, perché sapevo che avresti portato una certa capacità progettuale, diciamo. Infatti, alla tua prima mostra mi sono detta che ci dovevo tornare tre volte per capire, cosa che ho fatto. Per me è stato importante vedere il modo in cui cambiano il programma e le mostre al museo, come si susseguono le aperture. Una specie di organismo che si adatta a quello che succede o a quello che non c’è ancora. Non è la stessa cosa che fa CASTRO, ma la sento come un’affinità di fondo.
LLP: Un’iniziativa come la tua produce qualcosa che attrae le persone anche dall’estero. In questi anni, da quando sono tornato a Roma, CASTRO ha portato molti artisti in città che ci sono rimasti anche dopo lo studio programme. Se ci sono iniziative di questo tipo, si creano delle comunità, anche se temporanee. Non è proprio un’istituzione ma è come se lo fosse. Come per l’Associazione Piccolo America, si è compiuto un passaggio da qualcosa che era “fuori” ed è “entrato” nel sistema con tutte le conseguenze del caso, e così facendo si è garantita la continuità. L’importante è fare in modo che si crei e si consolidi una coscienza collettiva, perché vuol dire che si amplierà la convinzione e l’esigenza per qualcosa di più.
RS: Come si può tenere in equilibrio questo sistema di frammentarietà e discontinuità?
LLP: Proprio attraverso la capacità di riuscire a creare dei sedimenti che possano durare e strutturarsi al di là di chi li ha deposti. Che sia uno spazio come CASTRO o un museo.
È ovvio che a questo ci si arriva con un supporto dalla politica, però più crei coscienze, più crei comunità; e più quella comunità è forte, più acquista un peso politico e visibilità. Questo è ciò che serve per il futuro: creare una struttura di conoscenza e di coscienza. Perché poi, per il resto, Roma non è così diversa da altre città.
RS: La visione, di cui parlavi prima, è ciò che ti orienta nel lungo periodo e si percorre anche in modi differenti. Nonostante la presenza e concentrazione di istituzioni importanti civiche o nazionali, a Roma ho l’impressione che l’arte contemporanea ancora faccia fatica, non rientrando in una visione culturale della città.
LLP: Per questo è importante che le iniziative siano sostenute dal basso. Secession a Vienna è nato dal basso e oggi si è istituzionalizzato, trovando supporto con finanziamenti pubblici. Altro esempio, il KW Institute for Contemporary Art a Berlino è nato dall’iniziativa di due curatori, poi si è consolidato ed è diventato quello che è oggi. Questi processi dal basso all’estero sono più frequenti e forse è ciò che sarebbe più in linea con l’identità romana. Invece a Roma, e in Italia più in generale, si sono creati musei da zero, spendendo tantissimi soldi per le strutture per poi riservare pochissime risorse per i contenuti.
RS: Luca, c’è qualcosa che vorresti chiedere a Gaia?
LLP: Ci siamo confrontati molto. La mia curiosità per Gaia era proprio questa: dal tuo punto di vista che genere di continuità avrà CASTRO?
GDL: Penso che l’identità di CASTRO consista nel cambiamento, nel suo essere adattabile. Mi piace molto l’idea che i progetti piano piano diventino istituzioni, e nel frattempo altre iniziative nascono, crescono e così via. Penso che l’obiettivo per CASTRO nel breve termine sia quello di approfondire il più possibile il discorso della formazione, ora che abbiamo definito cosa sia uno studio programme. Nel lungo termine spero che il progetto si stacchi dalla mia figura e trovi maggiore stabilità, magari anche istituzionalizzandosi. Significherebbe che il lavoro di critica alternativa è riconosciuto e valorizzato.