Georgia Sagri: Anarchia spirituale di

di 28 Febbraio 2022

“Tell me stories!” è una rubrica sulla scrittura, a cura di Manuela Pacella. Uno spazio in cui testi di e su diversi autori indagano la scrittura d’arte, sperimentale, interdisciplinare, creativa e non.

Georgia Sagri, Stage of Recovery, 2020. Legno, schiuma da tappezzeria e tessuto. 250 x 250 x 56 cm. Courtesy l’artista.

Imparerò un altro linguaggio
E sognerò
Sogni altrui

Mi accingo a scrivere questo testo sapendo che avrei preferito scriverlo a mano, di getto, con tutte le esitazioni, gli errori e le correzioni rese visibili dal flusso continuo. Ho preso appunti su un quaderno prima di farlo – appunti tutti blu – e non so bene dove cominciare, né dove andrò a finire. Ho solo una traccia di quello che attraverserò e sono consapevole del fatto che non sia un caso che mi sia trovata a scrivere questo testo in questo momento storico, anche se il libro l’ho di fatto iniziato mesi fa. Parlo di Stage of Recovery (Divided Publishing, maggio 2021) scritto da Georgia Sagri, in cui stage significa sia fase che palco, e recovery significa tante cose tutte insieme: recupero, ripresa, ripristino, guarigione, ricostruzione, risanamento, riabilitazione. Sono tutti sinonimi? Dipende.

Il materiale attorno al quale si costruisce questo libro di prosa e poesia politica – e parte della pratica artistica di Sagri – è il dolore, la ferita, il livido, il sintomo inteso non come mancanza ma come un insieme di competenze, “ciò di cui il corpo è capace”.1 Rileggere il sintomo come un qualcosa in più, ci dice, “ci permette di affacciarci a rivelazioni, apprezzamenti, ammirazioni, e una consapevolezza rispetto alla vita e a chi siamo, della nostra natura, che non è mai totale, mai una, mai retta”. Che cos’è allora questo corpo che abitiamo se non un insieme di materia alchemica in continua trasmutazione, che dal micro del respiro arriva al macro dello spazio in cui questo corpo si muove attraverso, insieme ad altri corpi, e torna indietro fino al respiro? –– se stage fosse inteso come “stadio”, o come “fase”, o come stratificazione di tutti gli stati possibili che un corpo può attraversare. A voler seguire la scrittura di Sagri, però, la fase recupero non ha mai un vero e proprio inizio, ma è un continuo tornare al dolore e fa parte di quella che lei chiama “anarchia spirituale”: in questo caso anarchia non è letta come ἀναρχία [an-archia] intesa come “mancanza di governo” ma tradotta come ἀνἀρχή [an-arche] ovvero “senza inizio”. L’anarchia non è altro che un “procedimento temporale di formazione e soggettivazione politica: il soggetto politico è costruito attraverso un costante limbo emotivo e politico, fatto nell’anarchia, il che significa che non può ricoprire nessun piano prestabilito ma si adempie sul piano dell’etica: l’etica della libertà a venire”.2 Questa atemporalità per Sagri è una pratica, ed è senza inizio perché resiste ogni tipo di identità normativa. Siamo costantemente in fase di recupero, ripresa, ripristino, guarigione, ricostruzione, risanamento, riabilitazione, perché siamo fatte di carne, ed è sempre il corpo che trasporta e sopporta (carries) la ferita.

Per spirito di contraddizione è proprio dall’inizio che vorrei partire, dall’indice. Quando ho iniziato a leggerlo il libro era appena uscito ed ero stranamente consapevole del fatto che da qualche parte c’erano altre persone che lo stavano leggendo nello stesso momento, tanto da essermelo appuntato sulla prima pagina. Anche la scrittura di Sagri sembra essere un appunto costante: le date non sono sempre annotate (se non per necessità) nel corpo del testo e noi non siamo mai del tutto consapevoli di quando ciò che leggiamo sia stato scritto. Spesso la lucidità e la foga nei sentimenti ci fa intuire che sia stato scritto tutto d’un fiato. Anche perché il respiro torna costantemente, sia come prassi che come contenuto. Ma restando fuori dal tempo, torniamo all’indice in cui i ringraziamenti (acknowledgements) aprono e chiudono il libro, o forse sarebbe meglio dire che il libro accade a contatto con persone a cui essere riconoscenti, quindi in conversazioni aperte e in situazioni che ci si sforza di comprendere, perché “noi non siamo ciò che vorremmo diventare nella nostra testa, ovvero ciò che ci dicono le altre. Noi siamo ciò che viene rivelato”3 nella promessa di fare esperienza (e pratica) dell’interrogativo stesso, della questione, della domanda. Il nostro corpo vulnerabile passa attraverso dolore e potere, a regola d’arte li trasforma in informazioni, nel tentativo di avvicinarsi ad altri corpi, senza i quali sarebbe impossibile riconoscere il proprio. Ci mancherebbe il fiato. Allora come se parlasse tra sé, mentre ringrazia le altre, Sagri si fa una promessa: “ora insisterò sulla vulnerabilità”.4 Il libro si apre di fatto con una descrizione molto dettagliata di uno stato fisico di dolore, uno nello specifico, ma anche uno tra tanti altri. Una fase di necessità di recupero tra tante altre.

La redazione di un libro è un atto che avviene a posteriori, ed è sempre una scelta deliberata. Si potrebbe partire dalla fine, da qualcosa che è appena accaduto, per decidere da dove cominciare a fare domande; piuttosto che decidere dove mettere un punto si tratta di ricominciare da capo o aprire una pagina a caso. Questo attraversamento costante è circolare come il ritmo del respiro: “respirare non è un’azione, non è qualcosa che ci viene offerto, siamo vive quindi respiriamo, l’azione è quando tratteniamo, quando il diaframma si espande, il che succede in quei centesimi di secondo tra un’aspirazione e un’espirazione. Quando l’aria circola provoca una vibrazione particolare che solo ed esclusivamente questo corpo compie. Sintonizzarsi e bilanciare l’aspirazione e l’espirazione ci permette anche di raggiungere una sintonia interiore”.5 Questo bilanciamento è anche un esercizio per provare a ricevere tanto quanto diamo6 (to try to receive as much as you can give), ma soprattutto per abbandonare tutti quei ruoli che ci vengono affibbiati o che ci viene richiesto di svolgere. Perché in qualche modo dovremmo aiutarci a vicenda a ritrovare noi stesse tra quella stratificazione di costruzioni di soggettività in cui siamo continuamente invischiate, in cui ci rinchiudiamo e ci rinchiudono, come se fossero feudi.7 Nella scrittura di Sagri lo spazio e il corpo si costituiscono tra quello che viene sentito e percepito e quello che viene annotato, conta l’urgenza della scrittura più di chi scrive. Molti testi sono stati scritti durante momenti di organizzazione collettiva, a cui Sagri partecipa sempre e comunque con anima e corpo e, benché l’autorialità sia condivisa, la voce è compatta, a dimostrazione che dialogare non significa raggiungere lo stesso ritmo, ma amplificare i reciproci movimenti oscillatori.

Gran parte del libro infatti riporta il periodo dell’occupazione di Zuccotti Park a New York, poi diventato Occupy Wall Street, di cui Sagri è stata organizzatrice attiva nel 2011. Molti dei testi legati a quel periodo sono stati scritti a più mani, o sono dichiarazioni personali che rispondo agli avvenimenti. È tutto materiale prodotto a caldo, che insieme al resto risuona come un’urgenza non soddisfatta, e quindi sempre attuale. “Che cos’è Occupy? Occupy è un verbo. Alcune persone pensano che sia una specie di ‘organizzazione’ con richieste specifiche. Io mi oppongo a quest’idea. Alcune persone parlano da ‘membri’ di Occupy, io mi rifiuto. E alcune persone parlano come se stessero lavorando per Occupy, e io mi oppongo anche a questo. Non abbiamo richieste. La connessione è l’Egitto. E la Spagna. E Atene. E altrove. Ma non sono la stessa cosa. Le connessioni sono come echi, un tempo condiviso di idee e sentimenti”.8 Tra altri significati, secondo il vocabolario Treccani occupare è un verbo transitivo che viene dal latino occupare, derivato di capĕre «prendere», col prefisso ob– (nella direzione di, verso, contro, di fronte a, in vista di), che significa «prendere possesso di un luogo, sia legittimamente, quando esso sia libero, disponibile, non posseduto da altri, sia illegittimamente, con la violenza, sottraendolo al legittimo possessore (anche temporaneamente, come atto di protesta)». Il verbo è transitivo perché passa da un soggetto che compie l’azione. Il soggetto in questo caso è un’assemblea generale che “non è un corpo che prende decisioni, ma solo un corpo […] un ritrovo spontaneo di persone, in pubblico, sempre in condizione di trasformazione”.9 Da dentro questo corpo Sagri resiste ogni assegnazione di ruolo, ogni rivendicazione, ogni appartenenza, perché l’assemblea dovrebbe poter ospitare tutti, perché “le parole vengono sempre da uno spazio di negoziazione”,10 e quello che le interessa non è rappresentare qualcuno ma esserci come se stessa, dice in una mail all’amico David Graeber e, continua, “la burocrazia tende a stabilizzare ruoli e personaggi, rompendo il flusso e la spontaneità di ogni sforzo di auto-organizzazione, che dovrebbero venire dal basso senza intercessioni di una commissione centrale, o predeterminazioni di ogni genere”. È solo ascoltando che si diventa il luogo che tiene insieme problemi e preoccupazioni. Un corpo che abitando altri corpi si fa luogo e cambia forma in continuazione, come appunto la protesta stessa, serpeggia e trasforma il tessuto cittadino e la rete dei suoi rapporti.

Altre voci del libro sono dedicate agli omicidi di stato di Alexandros Grigoropoulos e Zak Kostopolous, o allo sciopero della fame in solidarietà con Dimitris Koufontinas, passaggio in cui pone la domanda più legittima di sempre: “il governo dovrebbe innanzi tutto proteggere la ‘libertà’ come elemento essenziale della giustizia e della democrazia. Altrimenti che cosa esiste a fare lo stato?”. Anche nella solidarietà il corpo è il veicolo della ferita, il luogo della protesta, espressione liberata dalla rappresentazione, “verità e amore tutt’uno all’azione. Il corpo come arma”.11 Con chi sciopera questo corpo e che cosa denuncia? Che cos’è il potere e dove risiede? Il corpo come reagisce? “Esposte al rumore nostro e altrui, dichiariamo coesistenza reciproca”.12 Anche scrivere questo testo, prendendo in prestito e amplificando tante delle sue parole, è per me la riprova che “dobbiamo intavolare un dialogo con il dolore, invece di evitarlo, perché il dolore è informazione. […] Non può esserci sostituzione del dolore, il dolore è una richiesta d’attenzione […] non c’è lotta senza una ricognizione del dolore”.13 E, ancora, “ogni rivolta, ogni necessità, ogni speranza, ogni rifiuto e ogni desiderio sono processi di liberazione, che non possono venire archiviati se crediamo di essere già libere”.14 La scrittura di Sagri contiene sempre un’analisi lucida dell’asfissia e dell’oppressione a cui ci troviamo esposte, ed è la rabbia che intreccia le connessioni, distribuisce le responsabilità e individua le strategie. Si capisce che conosca questa necessità che ho anche io di prendere appunti per tornare a possedere il tempo, per riconoscere, rivalutare e rendere legittimo – quindi sostenere – il nostro malessere.

Georgia Sagri, IASI, 2020. Veduta della mostra “IASI, Stage of Recovery” presso De Appel, Amsterdam.

Se occupy è un verbo, la performance è non un’azione ma uno strumento, da imparare a maneggiare al fine di distruggere le precondizioni di un momento, un dedicarsi a una routine quotidiana di preparazione, “affinché ci sia una parte che accade senza sapere come viene utilizzata”.15 La pratica è quel luogo abitato dal corpo, che il corpo costruisce a mano a mano, mentre articola la sofferenza in riferimento ad altri corpi. “La questione non è la gente ma è sempre la trasformazione del Chóros (spazio). È lo spazio che cambia e non quelli che lo costituiscono. Noi alteriamo il Chóros con le nostre esperienze condivise”.16 Ed ecco che nella pratica lo stage inteso come “fase” diventa “palco” per il recupero: IASI è una pratica performativa partecipativa incentrata sul respiro e sulla guarigione, che parte proprio dalla necessità dell’artista stessa di riabilitazione psicofisica, e una ricerca sulle condizioni fisiologiche e patologiche del corpo nella società globalizzata. Il lavoro si sviluppa tra sessioni private di ricognizione testuale e visiva di “riferimenti sensoriali” e “impronte affettive” che scaturiscono in disegni ed esercizi che “archiviano una revisione energetica pubblica”.17 Stage of Recovery in questo caso è una vera e propria scultura, una piattaforma-materasso che accoglie, una alla volta, le partecipanti durante le sessioni, mentre Sagri osserva la progressione dei loro movimenti e suggerisce tecniche e tempi di riposo, per aiutarle a raccogliere informazioni dai loro corpi. “Il lavoro è un iniziatore, il sentimento del fare una realtà che ancora non esiste, che è stata forse dimenticata, o è un fantasma, una memoria repressa, un desiderio”.18 La pratica, il lavoro, la tecnica, la performance sono i mezzi che usa un corpo per costruire uno spazio condiviso con un altro corpo, affinché entrambi si trasformino a vicenda. “Forse, con le tecniche respiratorie, la binarietà, le percezioni esistenti e la violenza di dover scegliere se ne andranno”.19

Con queste premesse, non mi sento di poter dire in maniera biografica o didascalica chi è Georgia Sagri. Ho già detto in qualche modo che mestiere fa, quali pulsioni la attraversano e che strumenti utilizza. Vorrei poter evitare in generale di dover sempre partire da chi siamo e da dove veniamo, invece che considerarci come materia fluida parlante, che orbita attorno ad altra materia, a volte vi collide, altre volte ne corre parallela. Come a dire che ciò che conta è come interagiamo, quello che diciamo e come ascoltiamo, fino a che punto ci trasformiamo: il fatto che Sagri mi abbia fatto venire voglia di usare le sue parole per ripetere quello che dice fa sì che questo articolo scritto a quattro mani sia diventato esso stesso uno spazio, in cui per un momento ci siamo incontrate.

Georgia Sagri, ΥΛΗ[matter]HYLE, A New Norm, 2017. With Isabelle Cornaro, Rochelle Feinstein, Calla Henkel & Max Pitegoff, Depz, Kelley Walker. Organized by Fabrice Stroun and Georgia Sagri.
Ύλη[matter]HYLE significa appunto materia, ed è uno spazio semi-pubblico e semi-privato vicino a piazza Omonia, nel centro di Atene, che è gestito e sostenuto collettivamente dal 2015. All’inizio del libro Sagri ci chiede “come puoi pretendere la pace per te e per i tuoi amici quando ci sono così tanti conflitti attorno a te?”20 Questa domanda per me è l’inizio di tutto, il principio che conduce a creare/fare/lasciare spazio. “Non voglio possedere lo spazio, voglio esserne parte, e crescerò attraverso chiunque abbia semplicemente piacere a stare qui. Lo spazio si chiama Ύλη[matter]HYLE. Una parola strana che potrebbe significare ‘legno’, ma ho sempre pensato che fosse la condanna di una parola, perché quel qualcosa non è niente fino a che non viene definita in qualche modo”.21 Ed è proprio questa presenza “senza inizio” che plasma un ambiente in una casa, che “è un assemblaggio di elementi, di voci e temperamenti”, dove le aspettative di tanti corpi si incontrano e si scardinano continuamente a vicenda. Se IASI è una cartografia in continua evoluzione, e Ύλη[matter]HYLE è un segnaposto su una mappa, Stage of Recovery è un diario di bordo non lineare. Comunque ogni cosa si manifesta come una diversa iterazione di spazio condiviso: “Dobbiamo riflettere, e dobbiamo provare a far fede ai nostri sentimenti e permetterci di essere completamente tristi per quello che sta succedendo, di lottare e trovarci in disaccordo, di dire ciò che pensiamo e di permetterci di ascoltarci l’una con l’altra”.22

Nell’anarchia spirituale di Sagri la guarigione è già dentro la ferita. Spesso mi piace immaginarmi il mondo come un posto dove quello che viene tramandato è la gestione della sofferenza reciproca, invece che un posto felice a cui ci viene insegnato d’agognare. Dove invece di vergognarti di piangere ti viene insegnato come celebrare la tristezza e si impara insieme a offrire la spalla, dove il movimento ondulatorio del lamento è una nenia che culla e fa muovere, un vacillare che assorbe rumore. Forse tutte le nostre manifestazioni e produzioni non sono altro che un modo per registrare e convivere con la ferita che il nostro corpo trasporta e sopporta. Come se il corpo stesso fosse uno spazio con la sua mappa che usiamo per navigarlo insieme ad altre. Allora mi verrebbe per forza da dire – tu fammi vedere dove fa male, ci vediamo lì.

Di che altro vogliamo parlare
Se non d’amore

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