Anj Smith “A Willow Grows Aslant The Brook” Museo Stefano Bardini / Firenze di

di 22 Marzo 2022

Anj Smith , dopo la recente partecipazione alla mostra collettiva “Stretching the Body” (2021) alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino – e dopo essere stata coinvolta in una nuova produzione in collaborazione con Fornasetti per il progetto espositivo “The Mountain of the Muse” (2019) al Museo Poldi Pezzoli, Milano – torna in Italia con “A Willow Grows Aslant the Brook”, una mostra personale e itinerante organizzata da Hauser & Wirth, attualmente disseminata tra le stanze color fiordaliso del Museo Stefano Bardini, casa museo fiorentina del noto antiquario e collezionista vissuto dal 1836 al 1922. Il titolo dell’esposizione è un omaggio a Ofelia, ritratta dalle parole di Shakespeare tra margherite e ranuncoli mentre viene trascinata dalla corrente del ruscello che le gonfia le vesti.

La produzione di Smith si contraddistingue per l’amore dei dettagli: ponderati giochi di equilibrio fanno pensare ad Alexander Calder, la precisione fiamminga ricorda le trame di Jan van Eyck, mentre la passione per il perturbante riportano la mente a Hieronymus Bosch. La ricerca per l’ibridazione tra forme umane, natura, minerali, tessuti e animali permette di trasformare i ritratti in mondi onirici creati da piccole velature di colore. Nella ricerca di Smith le categorie sono bandite: nature morte, paesaggi e ritratti coesistono in un’unica pittura a olio su lino. Ne sono un esempio opere come False Steward (2019-2020) e Names of the Hare (2017-2018), dove il corpo di una persona fluida, per genere, età, momento storico di appartenenza, si fa terreno ospitante di esseri animali e vegetali. La loro interconnessione così stretta ricorda le teorie endosimbiotiche della biologa Lynn Margulis, riferimento del movimento antispecista e del femminismo queer.

In tutto ciò che Smith realizza, dai dipinti alle incisioni su rame (Encho’s Annex, 2020-2021), l’occhio dello spettatore si trova a guardare freneticamente l’opera come un vetrino al microscopio. L’osservazione necessita di tempo. L’artista chiede allo spettatore di prendere tempo davanti alle sue opere e lo fa concependo il ritratto di un prolifico brodo primordiale con una cura grammaticale fatta di linee, punti, velature, forme e colori che ricordano la meticolosa precisione sintattica di Wassily Kandinsky.

Trovare le dodici opere di Smith realizzate tra il 2011 e il 2021 tra le quindici sale distribuite tra il piano terra, il mezzanino e il secondo piano dell’eclettico Palazzo Mozzi Bardini è una vera caccia al tesoro.

Interessante l’allestimento dei dipinti Untitled (Mayday) (2011-2020), Flowerings of the Chocolate Cosmos (2020), The Lover (2020), This Vegetable Universe (2019-2020): reclinati su delle basi di legno della collezione Bardini al centro della sala, la disposizione invita il visitatore ad osservarli dall’alto al basso mentre si è circondati dai capolavori di grandi maestri.

Il criterio di allestimento della mostra, a cura di Sergio Risaliti, sembra seguire la compatibilità cromatica tra le opere di Smith e quella delle pareti del museo. Il noto “blu Bardini” si ispira alle tonalità dei salotti dei palazzi nobiliari russi. La tonalità cambia in ogni stanza, a seconda della luminosità proveniente dai grandi finestroni. Nelle nicchie cieche dunque il blu è spugnato e diradato, rispetto alle sale dal blu deciso che danno sull’Oltrarno. Nonostante lo studio cromatico dell’allestimento del museo si sposi in maniera armonica con le tinte di Smith, la presenza di armi, aree d’altare e corde distanziatrici in stretta prossimità con i dipinti, non permette di avvicinarsi a sufficienza alle opere dell’artista, di conseguenza il tempo di osservazione non è lento né contemplativo come auspicabile. L’esperienza somiglia più a una passeggiata alla scoperta dei lavori di Smith che a una prolungata osservazione su potenziali mondi in cui animale, vegetale, umano e non umano si mescolano tra loro.

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Carolina Gestri