“Un senso di reciprocità basato su una mutualità reale, in cui l’arte crea uno spazio ambientale, nella stessa misura in cui l’ambiente crea l’arte”. Così Germano Celant riassumeva una possibile genealogia dei rapporti fra arte e ambiente in occasione della Biennale di Venezia del 1976. L’opera si dilata nell’ambiente, i confini fra i due sfarfallano, la prima risponde al secondo che ne viene plasmato a sua volta, in una circolarità inesauribile. Questa dialettica anima gli episodi più felici di “Panorama”, la mostra – giunta alla seconda edizione – organizzata dal consorzio di gallerie Italics. Confermata la formula rispetto all’esordio a Procida lo scorso anno: una lista di cinquantasei gallerie italiane (alcuni nuovi ingressi e qualche defezione) con la curatela di Vincenzo De Bellis; un luogo, Monopoli, che ospita in maniera diffusa l’esposizione. È proprio quella ambientale – più che quella tematica proposta, la nozione greca di xenia – una chiave plausibile per leggere l’evento, che contempera le ragioni espositive con le esigenze commerciali. Chiese (la tipologia più diffusa), palazzi, il castello di Carlo V e spazi pubblici dell’antico paese arroccato sull’Adriatico, offrono una cornice attiva alle opere: un formato ormai collaudato che costituisce una possibile indicazione per l’arte contemporanea in un Paese come l’Italia, all’intersezione fra attenzione per il territorio (alcuni di questi luoghi, chiusi da anni, sono restituiti alla fruizione) e potenzialità turistiche.
L’operazione sembra incontrare successo quando gli artisti concepiscono il proprio intervento in maniera site-specific. Fra i più puntuali, in questo senso, Stefano Arienti dispone una serie di teli antipolvere a coprire le navate laterali della chiesa di S. Salvatore: sulla superficie suggerisce con tratti dorati e argentati il disegno delle cappelle retrostanti, cui aggiunge brani di paesaggio ripresi da viaggi (dalla nativa Lombardia al Marocco e Israele), ambientando il sacro nella natura. In un’altra chiesetta, quella di S. Giovanni, Matteo Fato apparecchia un’ostensione della pittura mettendone in scena gli elementi intorno a un nucleo identitario locale: il culto della Madonna della Madia, la cui icona odigitria è portata in processione su una zattera in mare. Nella sala d’armi del castello cinquecentesco, Luca Vitone prosegue la serie degli acquerelli monocromi realizzati con le polveri prelevate dai luoghi, rappresentati così attraverso elementi residuali. Nella chiesa rupestre all’interno della stessa architettura civile, è imbastito un dialogo fra contemporaneo e moderno che costituisce un altro tratto caratterizzante di “Panorama”: il disegno impalpabile di una testa femminile di Marisa Merz è affrontato a una Madonna secentesca di Lorenzo Lippi, a illustrare la continuità di alcuni archetipi figurativi. Fra le due, l’altalena di Francesco Arena – che reca incisa la frase di memoria tolstoiana “Tutti i giorni presenti si somigliano fra loro, ogni giorno passato è differente a suo modo” – si configura come una sorta di dispositivo d’osservazione mobile della pittura.
In altri episodi, opere concepite per diverse occasioni amplificano le proprie risonanze nel nuovo contesto sacro. Mario Airò tocca con leggerezza lo spazio settecentesco di S. Angelo in Borgo cospargendone il piano pavimentale di piccoli cumuli di sabbia che sostengono un cucchiaio per il miele intinto nel colore azzurro: minute presenze misteriose che alludono all’idea di germinazione. Sul pavimento si svolge anche l’intervento di Alessandro Piangiamore, che copre interamente la navata barocca di S. Martino con un tappeto di terre colorate, arrestando lo spettatore fra un senso di esclusione e di seduzione tattile, nel quale – afferma l’artista – “la terra è sempre in accordo con la terra”. Dalla consuetudine con la terra, frequentata attraverso l’esperienza di Agricola Cornelia, nasce anche la riflessione di Gianfranco Baruchello sul tema dell’abitare e della casa, che si materializza nella fragilità di Una casa in fil di ferro (1975), qui ambientata a S. Maria della Zaffara, “prospezione onirica delle case-madri del sogno e del passato personale” (Baruchello).
Non sempre, tuttavia, il rapporto arte/ambiente appare risolto nell’ambito della mostra e in altre sedi – come, ad esempio, nel settecentesco palazzo Martinelli – il dialogo si fa più labile e a tratti più faticoso per la densità di opere. Sono piuttosto interventi singoli o accoppiamenti giudiziosi a rivelarsi più fruttuosi, come quello a tema erotico nella chiesa dei SS. Giuseppe e Anna. Il racconto evangelico di Cristo che accoglie la prostituta sembra rievocata nella serie di quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto disposti lungo la navata centrale: l’inclusione dello spettatore sulla superficie riflettente, su cui il ciclo si fonda, avviene qui sotto le spoglie voyeuristiche del commercio sessuale, ribadito nel satiro secentesco di Fracanzano che campeggia a mo’ di altare. Il coinvolgimento del pubblico si fa ancor più diretto nel calendario di performance, fra cui spicca quella di Eugenio Tibaldi che, attraverso una felice dislocazione, ripropone nel chiostro di palazzo S. Martino il torneo informale di poker originariamente organizzato alla Biennale di Cuba nel 2015. Il carattere relazionale di questo lavoro riverbera un’altra delle dimensioni costitutive della mostra, quella sociale: “Panorama” è anche luogo d’incontro – programmato e spontaneo – di un contesto di cui troppe volte si lamenta l’incapacità di “fare sistema”. Aspetti su cui ha già promesso di continuare a lavorare Cristiana Perrella, alla cui cura è affidata la mostra per il prossimo anno.