La scultura produce corpi e i corpi rendono manifesta l’idea di spazio. Lo spazio dei corpi delle stazioni della Via Crucis di Lucio Fontana è tutto in movimento e in movimento vorticoso, tanto da richiamare irresistibilmente i vortici che abbiamo appena intravisto dentro il Sole, o quelli che cominciamo a percepire come “venti cosmici”. In tutta la scultura moderna un simile respiro è stato possibile a pochissimi; in Lucio Fontana vale perfino di più se pensiamo al contesto storico-culturale in cui, nel 1947, questa Via Crucis è stata modellata da mani tanto prodigiose da sembrare medianiche. Erano anni, come si sa, in cui prevaleva l’ideologia del cosiddetto “impegno” e si potevano trovare difficoltà a sfuggire alle reti gettate da una cultura che tentava di indirizzare l’attività di un artista. L’artista in quanto tale risultava sospetto, quasi fosse superfluo o dannoso rispetto ai “valori” storico-politici (con tutto il rispetto che ancora oggi portiamo per il nucleo essenziale di quei valori).
Da questo punto di vista Lucio Fontana anticipa non solo la splendida stagione nuova dell’Action Painting e dell’Informale statunitense, ma si fa “maestro” di un progetto di nuova libertà e di un impegno diverso che sarà di lì a un decennio rilanciato dai poeti “novissimi” e dalla neo-avanguardia letteraria e pittorica subito dopo.
Forse il vantaggio temporale di Lucio Fontana fu determinato dall’aver vissuto nel clima cosmopolita di Buenos Aires, al di fuori, dunque, delle polemiche italiane, importantissime ma necessariamente circoscritte. A proposito del rapporto arte-spazio, Martin Heidegger in un saggio del 1969 dedicato a Eduardo Chillida, ci invita, come sempre, a interrogare il linguaggio. La lingua suggerisce che “fare spazio” si riallaccia al primitivo lavoro dell’uomo che conquista il proprio spazio vitale, agricolo, spalancando la foresta, sarchiandola, arandola. “Fare spazio” è in relazione stretta con il libero, l’aperto, dove l’uomo fonda la propria dimora, stabilisce il proprio habitat.
La Via Crucis è un’opera straordinaria per quel suo dare corpo a un movimento di libertà
Ma fondare la propria dimora è già un manifestarsi dell’essere dell’Esser-ci (Dasein), per rimanere a Heidegger. Infatti, nel saggio citato, il filosofo di Friburgo ci dà questa definizione di scultura; “incorporazione della Verità dell’essere nel suo operare fondativo di luoghi”.
Ma lo spazio non è assoluto, è relazione, tra luoghi, cose, eventi, azioni, movimenti. Rinvia, dunque, all’idea di un “abitare la Terra” che può essere poetico purché libero.
Nell’opera d’arte è sempre contenuto un monito legato al tempo
La Via Crucis di Lucio Fontana è un’opera straordinaria non solo perché occupa una posizione di assoluto predominio nella storia delle forme, ma per quel suo dare corpo a un movimento di libertà. Tale forza di libertà non nasce soltanto dal fatto, incontestabile, che Fontana opera in proprio, senza committente in questo caso, in un clima di paradossale “restaurazione” ispirata dal burocratismo del Partito; nasce anche dal coraggio senza condizioni con cui lo scultore “utilizza” il Sacro.
È chiaro che Lucio Fontana vede nella figura di Cristo e nel suo finale calvario, nel suo sacrificio, uno spazio conquistato per l’umanità intera, non solo per i credenti, uno spazio tanto aperto da permettere al gesto dello scultore di ripercorrerlo e di “manifestarlo come dimora dell’uomo senza più legami”.
Si è parlato, riduttivamente, dato il clima sopra indicato, di “barrocchetto” di Fontana. Caso mai parliamo di barocco, cioè di recupero, dentro il moderno, della scoperta barocca dell’infinità dei movimenti dunque degli spazi possibili che la mente va esplorando come dimore nuove, insospettate come frontiere mobili. Basti pensare “alle infinite verità possibili” di cui scriveva Galilei. Si può dire che mentre il movimento e la velocità nella scultura futurista (pensiamo a Boccioni, naturalmente) è trattenuto in nuce, fermato nel proprio annuncio progettuale, non vi è centimetro cubo in questa Via Crucis laica che non incarni la pulsione di un’energia che non è per nulla retorico definire cosmica.
Il movimento produce metamorfosi, l’interscambio tra umani, cavalli, rocce e vesti modellate da un vento interiore, che svelano allo sguardo dell’uomo quei piani dell’esistenza che vengono immediatamente percepiti come autentici e veri al di fuori delle costrizioni del quotidiano. La soggettività prepotente dell’artista diventa per questa via oggettività, riconoscimento dell’esserci che la libertà degli spazi avvicina all’essere.
A questi livelli la scultura è anche una grande lezione di etica, se intendiamo per etica prima di tutto il rifiuto delle ideologie e del dominio della “chiacchiera”. Dire che un’opera che consideriamo oggettivamente fondativa di uno spazio capace di parlare a tutti, è attuale non aggiunge quasi nulla. E però in un’opera d’arte è sempre contenuto un monito legato al tempo. Ora più che mai, in un momento di rinnovate prudenze e di marketing della paura, la poetica del rischio di Lucio Fontana ci serve come punto di riferimento essenziale.
Ho avuto la fortuna e il privilegio di convivere con questa Via Crucis per molti anni. Ora che è stata giustamente recuperata a una fruizione pubblica, sono certo che potrà agire con forza in una società che ha assoluto bisogno di “volare alto”, da sfondare le barriere dei riti consumistici, per ritrovare una “dimora per l’uomo”, disboscando, sfrondando, sarchiando le male erbe che infestano la mente condizionata. L’operare di Lucio Fontana è ricco di “colpi d’ala”, ma questa Via Crucis mi è sempre parsa decisiva per tutta l’arte europea, allora (1947) come adesso che la riscopriamo (1988).
Parliamo di Barocco, cioè di recupero, dentro il Moderno, della scoperta Barocca dell’infinità dei movimenti degli spazi possibili
A questo “servono” gli artisti, a tagliare con l’accetta le funi che ci legano quotidianamente i polsi e le caviglie. La storia tenta di “incaprettarci”, come usano i violenti di ogni ordine e grado, e noi continuiamo a slegarci, e ci riusciremo fin che c’è l’arte, vale a dire capacità di inventarci nuove dimore.