Silvia Rivera Cusicanqui: Il testo come artigianato di

di 12 Dicembre 2022

“Tell me stories!” è una rubrica sulla scrittura, a cura di Manuela Pacella. Uno spazio in cui testi di e su diversi autori indagano la scrittura d’arte, sperimentale, interdisciplinare, creativa e non.

Silvia Rivera durante un seminario dedicato alla globalizzazione e ai diritti delle popolazioni indigene nel nord del Cile.

Un oggetto etnico non identificato, così si definisce Silvia Rivera Cusicanqui, sociologa, attivista, storica, pedagoga, regista, intellettuale, militante per la depenalizzazione della foglia di coca e tenace critica anticoloniale. Boliviana, nata nel 1949 a La Paz, amante delle piante e della cucina andina, Rivera Cusicanqui parla aimara e quechua e si definisce ironicamente birchola, una signora che vuole essere chola1, ed è così che ci dà accesso al suo complesso mondo di parole in varie lingue e di eterogenei significati.

Negli anni Settanta ha preso parte al movimento katarista-indianista, che si opponeva alla discriminazione del popolo aimara e ne difendeva l’identità politica. Durante le dittature, a causa della sua militanza, è stata costretta a esiliarsi per diversi anni tra Messico, Argentina e Colombia dove ha scritto Oprimidos pero no vencidos (Oppressi ma non vinti), il suo primo libro riguardante le lotte contadine aimara e quechua nel XX secolo. Negli anni Ottanta è stata direttrice e co-fondatrice del Taller de Historia Oral Andina (THOA), il Laboratorio di Storia Orale Andina, e da quel momento la sua produzione è rimasta intrinsecamente legata all’anarchismo e ai processi comunitari e sindacali in Bolivia. Nel 2010, come parte del Colectivo 2, ha curato la mostra “Principio Potosí ¿Cómo podemos cantar el canto del Señor en tierra ajena?” (Principio Potosí – Come possiamo cantare il canto del Signore in terra straniera?) al Centro d’Arte Reina Sofia.

Rivera Cusicanqui è emersa nel mondo intellettuale e artistico, in America Latina e altrove, per la sua comprensione ch’ixi del mondo, ovvero per aver portato avanti una contro-egemonia del pensiero illustrato proponendo un’episteme che infrange l’oculocentrismo e il binarismo cartesiano. Ad esempio, le lingue oppresse come l’aimara veicolano altri modi di interpretare il mondo, in cui l’atto del pensare è analogo a quello di cucinare, camminare o respirare. Attraverso le epistemologie andine, l’autrice racconta un mondo in crisi ricco di complessità, né nero né bianco, bensì marmorizzato, in cui la ragione non è l’unica via della conoscenza.

Uno degli assunti su cui verte il suo pensiero è quello di dubitare delle parole e di fornirci delle chiavi di lettura per sottrarsi a rigidi significati e nomenclature, che ci classificano impedendoci di pensare oltre. Le sue parole diventano libri e i suoi libri sono oralità. Artigianato intellettuale, come lei stessa li definisce. Per questo motivo, questo testo non potrebbe essere altro che una conversazione tra colleghe che hanno assaporato e incarnato parte del suo pensiero. Lo ripercorriamo in queste righe con la consapevolezza che, in questo doppio esercizio di traduzione – dall’oralità alla scrittura e da una lingua all’altra –, qualcosa si perde e qualcosa si guadagna.

Qual è stato il primo incontro con il pensiero di Silvia Rivera Cusicanqui?

Carolina Chacón Bernal

Ho sentito parlare di Silvia Rivera Cusicanqui per la prima volta da parte dei movimenti femministi e decoloniali. Il testo che, nel 2013, mi ha avvicinata al suo pensiero è stato Ch’ixinakax utxiwa: una reflexión sobre prácticas y discursos descolonizadores (Ch’ixinakax utxiwa: una riflessione su pratiche e discorsi decolonizzanti) del 2010. Qui Rivera Cusicanqui affronta molte questioni, come la nozione di colonialismo interno, che saranno poi trasversali nella sua produzione intellettuale e di cui continuerà a parlare – pensando e scrivendo.

Il manto di dubbio che getta sulla capacità delle parole di nascondere e, al tempo stesso, la sua predilezione per l’analisi delle culture visive perché capaci di rivelare e riattualizzare molti aspetti inconsapevoli del mondo sociale, sono il terreno in cui è germogliato il postulato curatoriale della mia mostra “Maquinas de vida” (Macchine di vita) per il Museo di Antiochia. Attraverso quell’esposizione, volevo proporre una controstoria visiva utilizzando le immagini, presenti nella collezione del Museo, che facevano riferimento alla rappresentazione e costruzione della nozione di genere. L’idea, inclusa nel catalogo, che “le immagini hanno la forza di costruire una narrativa critica in grado di smascherare le diverse forme del colonialismo contemporaneo”2, è stata fondamentale non solo per il progetto, ma anche per la mia pratica curatoriale a partire da quel momento. La sociologia dell’immagine è diventata uno strumento metodologico critico per analizzare le politiche della rappresentazione e per riscoprire, in una prospettiva storica, significati censurati dalla lingua ufficiale. L’immagine come sintomo di ciò che il discorso nasconde.

Un esempio di come questo strumento possa diventare un esercizio di decolonizzazione è l’analisi che Rivera Cusicanqui fa del lavoro di Waman Puma3: Primer Nueva Crónica y Buen Gobierno (Prima Nuova Cronaca e Buon Governo). Questo documento, risalente al 1612–1615 e indirizzato al Re di Spagna, contiene più di trecento disegni a inchiostro. Attraverso le illustrazioni, il cronista riporta le idee proprie della società indigena preispanica, così come ciò che avevano significato la violenta colonizzazione e l’assoggettamento del territorio e delle popolazioni alla Corona spagnola. Il suo obiettivo era far comprendere al re la necessità di ordine e di un buon governo nelle colonie.

Luisa Villegas G.

Paradossalmente, ho scoperto il pensiero di Silvia Rivera Cusicanqui durante il mio master in Spagna. Era presente nei contenuti di alcuni corsi, ma mi sono avvicinata a lei soprattutto durante il lavoro di tesi, nel tentativo di mantenere una connessione con i problemi relativi al contesto dell’arte latinoamericana. Uno dei casi studio del mio progetto di tesi è stata appunto la mostra “Principio Potosi”, curata da Rivera Cusicanqui e dal Colectivo 24. Da questo processo, a volte conflittuale, è nato il libro Principio Potosi Reverso (2010)5, una pubblicazione che è stata parte integrante della mostra, sfidandone però al tempo stesso gli obiettivi teorici e estetici. La mostra decantava i risultati della ricerca sviluppata dal Colectivo 2 sulla produzione di immagini provenienti da pratiche culturali come le festività di Ognissanti e il Carnevale, le quali enfatizzano i processi di resistenza e negoziazione delle comunità indigene del Sud, nella zona circumlacustre della Bolivia, in contrapposizione alla narrazione dell’esperienza indigena come miserabile. Il libro mette in luce altre forme di intendere la colonizzazione, la nozione di patrimonio e persino le pratiche artistiche contemporanee, da prospettive che relativizzano e mettono in discussione ciò che si considera vero.

Il lavoro di Rivera Cusicanqui è stato molto importante per me per diverse ragioni. Quelle letture fatte in accademia per inquadrare la mia ricerca dal punto di vista teorico sono poi diventate idee che mi hanno accompagnata nella mia esperienza migratoria come donna bianca-mestiza latinoamericana che aveva il privilegio di studiare in Europa. La teoria incarnata, la teoria radicata, che affonda le sue radici nell’esperienza, che non nega la propria storia e genealogia, riconosce che ogni essere umano è produttore di conoscenza. Da qui deriva un’altra scommessa di Rivera Cusicanqui, quella di fare teoria con la pratica – pensare camminando, articolare idee durante la semina, produrre sapere mentre si cucina.

Felipe Guaman Poma de Ayala, El primer nueva corónica y buen gobierno. UT Press, 2010.

Con quali concetti ci sentiamo più connesse?

LV

Due concetti sono stati trasversali nel lavoro di Rivera Cusicanqui: la prassi decolonizzante e l’epistemologia ch’ixi.
Già in Ch’ixinakax utxiwa: una riflessione su pratiche e discorsi decolonizzanti (2010), la sociologia dell’immagine si configura come uno strumento per mettere in pratica esercizi di decolonizzazione. Nel suo libro Sociologia dell’immagine: sguardi ch’ixi dalla storia andina (2015), l’autrice approfondisce l’idea di una “pratica teorica, estetica ed etica che non conosca confini tra creazione artistica e riflessione concettuale e politica”6. Al suo interno costruisce una sorta di genealogia intellettuale di tentativi di decolonizzazione attraverso le immagini che spaziano da Melchor María Mercado a Waman Puma, per poi concludersi con la produzione di esercizi audiovisivi e riflessivi sviluppati da Rivera Cusicanqui con studenti e studentesse.

Queste esplorazioni presentano una modalità di ricerca che propone di analizzare i processi a cui di fatto si partecipa, il che implica una necessaria “defamiliarizzazione, una presa di distanza da ciò che è arciconosciuto, dall’immediatezza della routine e dell’abitudine”7. L’esercizio di una pratica teorica/estetica chiama in causa la propria soggettività, trasformando gli studi accademici e l’ambito professionale in una pratica consapevolmente politica volta a valorizzare altre forme di esperienza del mondo e di produzione del sapere. La prassi decolonizzante si applica mettendo in pratica quella che Rivera Cusicanqui definisce teoria radicata, una teoria che stabilisce un determinato legame con i processi accademici e, al tempo stesso, permette di districarsi nella trama di poteri e complessità della colonialità del sapere, dell’essere e del potere. L’illusione della neutralità dell’osservatore/ricercatore svanisce, rivelando che una delle manifestazioni della colonialità è proprio la finzione operativa dell’oggettività. Di conseguenza, i processi di decolonizzazione non si possono concettualizzare, bensì realizzare attraverso pratiche situate.

CCB

Trovo che nel concetto di ch’ixi risieda un potenziale intellettuale e politico che, a partire da una metafora visiva usata in Sociologia dell’immagine (2013) e più recentemente in Un mondo ch’ixi è possibile (2019), ci avvicina a un altro tipo di comprensione del mondo, una critica all’idea di ibridazione culturale o mestizaje, colpevole di appianare discorsivamente e politicamente i conflitti che ereditiamo da questo scontro coloniale nei territori della Nostra-America.

Questo concetto-metafora dell’aimara descrive l’immagine del grigio marmorizzato, un colore composto da macchie di bianco e nero che si giustappongono generando un effetto visivo grigio, anche se nella sua materialità i colori non si mescolano. Non si possono ignorare i processi di oppressione e sterminio perpetrati durante la conquista, ma neppure le resistenze, assimilazioni e contaminazioni che parlano di questo mondo e della logica ‘altra’ del ch’ixi, che implica non essere necessariamente una cosa o un’altra, ma molte cose che coesistono e sono terreno di scontro di differenti soggettività. Il ch’ixi si riferisce anche a luoghi di appartenenza e non appartenenza, di appartenenza parziale o di mobilità tra mondi. Politicamente questo concetto permette di abitare la contraddizione della colonialità nella contemporaneità, perché proprio in questo risiede il suo potere emancipatore e creativo.

Perché una conversazione per parlare di Silvia Rivera Cusicanqui?

LV

Già a partire dal lavoro svolto con il THOA, uno dei principi fondamentali del pensiero di Rivera Cusicanqui è stata la necessità di fare appello alle lingue andine, ai loro profondi significati cosmogonici e alla loro esperienza del mondo e della conoscenza, che coinvolge il corpo, l’azione, il pensiero, l’emotività e la collettività. Pertanto, abbiamo voluto rendere questo testo una conversazione che corrispondesse a questa forma di pensiero e fosse in sintonia con esso. Rivera Cusicanqui presenta il suo ultimo libro (Un mondo Ch’ixi è possibile) come un libro orale, un collage di molte conversazioni, perché per lei produrre teoria è una sorta di artigianato intellettuale che cancella i confini tra cultura alta e bassa, tra arte e manifattura. In questo caso abbiamo deciso di tessere insieme alcuni dei principali contributi di Rivera Cusicanqui attraverso la nostra esperienza personale – parlando ad altri, abbiamo parlato tra noi e con chi legge, in opposizione al feticismo dei concetti accademici. Il fatto che questo testo sia il risultato di una conversazione dimostra come io e te abbiamo incarnato l’epistemologia ch’ixi, per le nostre pratiche intellettuali e le nostre esperienze di vita.

Il pensiero di Rivera Cusicanqui ci ha permesso, ad esempio, di domandarci in che modo e che tipo di conversazioni instauriamo con l’accademia e le pratiche artistiche provenienti dai circuiti europei, ponendo l’accento sugli strumenti con cui ci relazioniamo. Questo stesso testo è un gioco di traduzioni, un tentativo di conversazione tra lingue diverse, oltre a incarnare una metafora visiva in cui la Colombia (da dove veniamo noi) e la Bolivia (da dove viene l’autrice), due contesti culturali diversi tra loro, due colori decisamente differenti, sono percepiti a distanza, dall’Italia, come una macchia grigia chiamata Nostra-America.

(Traduzione dallo Spagnolo di Marta Ruffa)