Yve Lomax: Scrivere l’immagine di

di 12 Gennaio 2023

“Tell me stories!” è una rubrica sulla scrittura, a cura di Manuela Pacella. Uno spazio in cui testi di e su diversi autori indagano la scrittura d’arte, sperimentale, interdisciplinare, creativa e non.

Quando Yve Lomax parla e scrive richiede una certa concentrazione. Il ritmo della sua voce e i giochi di parole si formulano attorno a un contratto teorico, oltre che emotivo, e il suo pubblico ideale siede in cattedra e sui banchi universitari. La densità con cui il messaggio viene consegnato è tale da doversi soffermare sulle immagini offerte, che s’intervallano alle digressioni teoriche in cui la voce dell’autrice si mescola con quella d’altri autori, interpellati spesso come interlocutori invece che referenti.

La prima volta che ho condiviso un mio testo con un pubblico, oramai già sette anni fa durante il master al Dutch Art Institute, la persona invitata a darci un riscontro, per quella sessione Jeuno JE Kim, mi ha consigliato di leggere Yve Lomax. All’epoca non avevo ancora una dimora sufficientemente fissa per tenerci dentro una biblioteca ben fornita, né delle finanze abbastanza stabili per comprare sempre dei libri stampati. Come si conviene, mi sono scaricata un paio di pdf online che non ho mai consultato seriamente — l’attenzione veniva sempre catturata da qualcosa di più urgente, di più specifico, di più politico. Ad oggi, dopo essermi finalmente addentrata un po’ nella sua scrittura capisco che il motivo per cui mi è stata raccomandata sia principalmente stilistico, rispetto a quello che inconsapevolmente stessi cercando di fare in quel momento di apprendimento, appunto, in cui la mia voce non aveva ancora uno scheletro abbastanza solido per reggersi in piedi da sola. La scrittura di Lomax, che si coagula come estremamente soggettiva, solida, autonoma e arbitraria, sarebbe stata sicuramente un esempio a suo modo liberatorio, e per un certo stile e formato lo è tuttora.

Per me Yve Lomax rientra dentro una memoria specifica, in quel bagaglio riempito durante gli anni dell’accademia d’arte e immediatamente dopo. Riaprire i suoi libri ora è un po’ come tornare a lezione, al simposio, a studiare, a confrontarsi con le colleghe per capire come formulare e consegnare un pensiero a qualcun’altra; soprattutto a come ricucire la traiettoria di un pensiero con il suo lignaggio bibliografico, come chiamare a raccolta tutte coloro che si sono soffermate sullo stesso orientamento e come invocarle. Come trasformare concetti in immagini, e viceversa, come rafforzare una teoria attraverso espedienti empirici, visivi, condivisibili, relazionali. Oltre che teorica e scrittrice, Lomax è per l’appunto un’artista visiva, che sin dagli anni Ottanta ha insegnato in diverse università e accademie londinesi, scritto teoria e lavorato con la fotografia, la parola e la voce. Io quest’estate mi sono letta il suo Passionate Being: Language, Singularity and Perseverance (I.B. Tauris & Co Ltd; Londra 2010), e iniziato Sounding the Event: Escapades in Dialogue and Matters of Art, Nature and Time (I.B. Tauris & Co Ltd; Londra 2005) e il più conosciuto Writing The Image: An Adventure With Art And Theory (I.B. Tauris & Co Ltd; Londra 2000), ma il caldo estremo non era poi così conciliante rispetto alla concentrazione richiesta. Meno male che poi è arrivato settembre.

“Un’enunciazione di parole scritte dà forma a una performance parlata, e quello che la fa iniziare è la sicurezza ‘che tutto in questo mondo è progettato per distrarci’ e la richiesta di prestare attenzione alla vicinanza (nearness)” — inizia così il suo intervento a una delle poche conferenze video che ho trovato per caso1. Ecco, questa richiesta d’attenzione è costante, è condizione intrinseca della vicinanza intesa come condivisione dello stesso spazio.
Il “passionate being” potremmo tradurlo letteralmente come “essere appassionato” o, esemplificando, con entusiasta — per cui l’entusiasta è colei che è investita dalla passione e che, per necessità, diventa parlante (speaking-being). Vale a dire esiste nel linguaggio (being in language) come pura passione per la comunicazione; e la possibilità stessa di comunicare è quindi potere, inteso come potenzialità ma anche come capacità di non saper dire, il che rende l’entusiasta capace di sostenere e affrontare anche stati d’impotenza.
La possibilità stessa di comunicare è potere, inteso come potenzialità, ma anche come capacità di non saper dire, che rende l’entusiasta capace di sostenere e affrontare anche stati d’impotenza. La passione è qualcosa che subiamo e qualcosa che ci accomuna nell’esperienza della contingenza, mentre cerchiamo risposte a domande nostre o altrui, siamo costantemente impegnate nella (ri)formulazione di ciò che siamo, e talvolta l’impressione è che le parole si scrivano da sole.

“Le parole sono cadute da migliaia di bocche e sono state scritte infinite volte; ad ogni modo, mi sento solo di dire: ti amo2

Ecco che le parole che cerchiamo, quelle che troviamo per dire quello che non sappiamo, diventano materia (sostanza) e materiale (strumento) dell’esperienza: “forse il nostro peccato originale è che noi umani prendiamo l’inappropriatezza come qualcosa di cui bisogna vergognarsi e quindi cerchiamo tristemente un’identità appropriata. Ma se serenamente lasciassimo stare questa ricerca, scopriremmo che tra le possibilità ‘inappropriate’ c’è quella di non essere ancora messe in atto (enacted)”. C’è un certo conforto, devo ammettere, nello scoprire e nell’abbracciare l’inattuato — vale a dire quando ci rendiamo conto di non essere mai complete, definite, racchiuse dentro una cornice specifica o invischiate a un modo di essere, a un’identità inamovibile. L’entusiasta è consapevole dell’unicità della contingenza e quello che fa è semplicemente tracciare come è arrivata a un certo punto, che cosa (volenti o nolenti) ha innescato una qualche parola. Noi siamo tutte nate nell’espressione (“l’espressione è ontogenetica, una forza dell’esistenza”)3 e “l’emergenza di cose definitive, così necessarie all’espressione, la potenzialità è entrata nell’attualità, che capita quando la potenzialità passiva non è capace di essere incapace e torna su sé stessa; però, l’espressione è sempre a doppio senso: incessantemente si dispiega (unfold) e avvolge (enfold)”. Non credo che la mia traduzione renda giustizia all’equazione secondo la quale

unfolding:explication=enfolding:implication

quindi “se spiegarsi significa evolversi, implicare significa coinvolgere”4 — è seguendo la traccia di Deleuze che capisco che le congetture proseguono nelle note a pié di pagina, che i riferimenti arricchiscono sia i contenuti che la forma. Come nel corpo del testo, il linguaggio si sviscera e si ricompone in un modo che ha poco a che fare con un classico saggio teorico dove il discorso s’appoggia e si rimpolpa su parole altrui citate per intero. Qui sembra più che le voci siano prestate, ovvero che nelle note alla fine del libro si apra un altro mondo in cui si vede chi c’era, si distinguono i volti e si intuisce come tutto il corpo del testo sia di fatto una conversazione collettiva e una digressione sì teorica, ma anche poetica collettiva, col beneficio del dubbio, delle esitazioni, delle ripetizioni e dei ripensamenti di un discorso tra più interlocutori. La quasi-indipendenza della sezione “citazioni e annotazioni” contiene diramazioni rizomatiche preziose, in senso teorico e in senso stilistico, non sono quasi solo addette a tracciare la provenienza di uno spunto, ma vere e proprie micro riflessioni dell’autrice e di coloro che l’hanno accompagnata nell’espressione.

“Potrei farti un esempio per spiegarti che cosa sia un bacio, ma ci saranno sempre altri esempi plausibili5

Per Lomax, nella condivisione delle esperienze, ogni esempio è sostituibile, in quanto dà un’immagine che prova a definire cosa siamo e che intendiamo ma allo stesso tempo frantuma ogni “pretesa di assolutezza”. La nostra capacità espressiva, che sia visiva o letteraria, è il modo in cui il nostro entusiasmo si manifesta — il linguaggio non è il nostro medium, ma siamo noi ad essere suoi strumenti, a fargli da tramite. Sono le domande stesse che s’incastrano da qualche parte, in qualche punto preciso tra la testa e la gola, talvolta rimangono lì sospese in un limbo che precede la risposta, così come capita che un pensiero si estingua prima di venir proferito. Nel nostro essere-nel-linguaggio ci affidiamo anche ai silenzi come a veri e propri momenti di accoglienza — in cui il linguaggio ci sfiora appena. Nella scrittura di Lomax (mi appunto a matita in prima pagina) la stesura viene prima del pensiero, ed è lì che il linguaggio accade a fianco dell’esistenza vera e propria.

Il rapporto inestricabile tra immagine e parola persevera anche nei saggi antecedenti, dove la teoria viene invocata mettendo bene in chiaro sin dalla prefazione di Irit Rogoff a Writing the image, che “l’immagine scritta è strettamente destinata al poema e non al testo teorico”6 — e per scrivere l’immagine s’intende sia la scrittura descrittiva di un’immagine visiva, ma anche la sovrapposizione di testo su immagine (writing ‘on’ the image). “Veniamo tutte da una qualche parte, rappresentiamo tutte un qualcosa, tutte siamo (e ri-facciamo giornalmente) noi stesse attraverso l’atto del discorso e l’apparenza, ma nessuna di queste è un’identità stabile su cui possiamo contare come costante nella raffica d’incontri, nella differenza con cui ci confrontiamo”7. Tra il letterale e il metaforico, la riflessione di Lomax parte da dentro l’immagine, dalla figura che si accorge di essere inquadrata e intelaiata. Formalmente, anche lo stile della scrittura è una successione di immagini, a tratti performativo, che libera il detto dal teorico: “Differenza. Più di una differenza sola. Più di Molte della Stessa. Molte differenze differenti. Più differenza. Si rompe la riga. La differenza irrompe su più piani. Non solo un multiplo di uno. Molti confini di-versi. Molte linee di rottura. Molte linee interrotte. Molte righe che irrompono su confini di-versi. Un movimento in divenire. Diventare di più e non di meno”8. Ecco che questo stile libero svincola la parafrasi dalla sintassi, il lessico dalla lessicologia classica, sfociando in una retorica appunto poetica che libera l’autrice e noi lettrici assieme, permettendo a lei e consigliando a noi di seguire le tracce di senso che troviamo nelle parole stesse, fidandoci di un certo ritmo intrinseco che appartiene a ogni voce.

Nell’intelaiatura della figura, l’ideologia è una linea centrale e mediana (in the middle), che inquadra e narra il mondo per farlo apparire in un certo modo. L’aspetto cruciale nella scrittura dell’immagine, dall’immagine e sull’immagine, è appunto la modalità in cui l’autrice dialoga con la sua bibliografia, come la teoria influenza la costruzione stessa dell’immagine, e come rivendica una certa autenticità, tra ideologia e verità. Tra un capitolo e l’altro, serie fotografiche vengono inserite sia come intervalli, in cui l’occhio libero dalla parola si sofferma su un altro tipo di lettura, che come testimoni di una ricerca formale indipendente ma informata da (e formata sul-) lo scheletro della ricerca teorica.

In Sounding the Event si affronta l’evento come la venuta di un pensiero, il momento in cui qualcosa ci viene in mente, il luogo e il tempo in cui inizia una storia, il modo in cui ci viene un’idea o meglio come le idee arrivano a noi. Il principio di tutto che già contiene uno svolgimento che permette il divenire: “è l’evento che sta per succedere?”9 Un tema che ritorna da Passionate Being è quello del vedere (o formulare) senza presupposizioni, come a voler sempre vedere le cose per la prima volta — o meglio dire, essere in grado di ascoltare — come (aggiungo io) quando ci si innamora, ci si ritrova fondamentalmente libere da pregiudizi e si abbattono costantemente le proprie barriere – ci si risveglia più elastiche. Qui per Lomax l’ascolto è entusiasmo, atto d’amore, di prossimità e di scambio — d’inseparabilità: “non sono mai separabile dalle mie relazioni con il mondo, sono proprio queste relazioni che mi costituiscono, mi realizzano, mi disfano e mi fanno diventare ciò che sono (make me, make me come about, come undone, become)”10.

Tornando alle citazioni e alle annotazioni, anche qui il riferimento non è sempre esplicito, le voci si sovrappongono e diventano terreno fertile su cui costruire un pensiero autonomo. La citazione implica la lettura, quindi l’ascolto, in un testo che è una conversazione in cui appunto la parola altrui trova già posto nel flusso della ricerca di senso – come se la scrittura che interpella possa formalizzarsi in un’intervista non consequenziale, scrivendo un qualcosa che assomiglia di più alla partitura di una performance o a una sceneggiatura, in cui due persone si pongono domande a vicenda e si raccontano una storia. Ecco, questa storia non ha una narrativa univoca, ma di nuovo si dirama e si concede il beneficio del dubbio, della singolarità e della confusione dell’esperienza: “non riesco a eliminare la confusione dal mio pensiero”11 — suona quasi come una confessione, una corrispondenza, che subito dopo torna dialogo. Come the unforseeable, l’evento è tutto ciò che ci sorprende, l’incongruente, l’inaspettato e ciò che porta cambiamento.

È sempre la voce per Lomax che ha la capacità di tracciare, di esprimere il ritmo di questi movimenti, di farsi carico delle parole, delle immagini e degli eventi di ognuna di noi e trasformare un qualunque cinguettio in una melodia. Nella voce si compie l’ascolto e dunque la vicinanza, in un susseguirsi d’immagini forgiate dalla parola, da una narrativa che si realizza sulla nostra propria capacità espressiva, ma che nella sua formulazione rimane intrinsecamente un’azione collettiva, conversazione, dialogo e bibliografia, in cui costantemente continuiamo, entusiaste, a (ri)posizionarci e ad esprimerci, a dare forza e vigore alla nostra intonazione.

Già che c’ero, prima di completare questo pezzo, ho anche preso in mano Figure, calling — un breve saggio più recente (2017) edito da Copy Press, la casa editrice indipendente di cui Lomax è fondatrice, “dedicata a estendere l’idea di scrittura, immagine e leggibilità, 12” contenitore anche di video essays dediti alla spoken word, sempre conguaglio tra parola e immagine. Nel 2015, Copy Press ha fondato anche la sua Reader’s Union (letteralmente sindacato di lettori) “nell’intenzione di formulare e affermare il suo scopo: trovare spazi comuni per lettori e scrittori per approfondire la possibilità e le limitazioni dell’‘incontrarsi’ nella società contemporanea”. Anche Figure, calling è una riflessione stratificata sul contratto sociale, le sue modalità di diffusione e condivisione, il cui contenuto e sostanza è la figura, ovvero materia plastica, indistinguibile dalla sua forma, che costantemente si trasforma, si staglia e diventa parte di un paesaggio più ampio. Questa figura però è tutt’altro che un personaggio, ma piuttosto l’esperienza pura e gioiosa di quello stato di continuità tra sostanza e forma, luce e ombra:

“Joy is not and never will be productive.
Joy is the cessation of the demand and imperative to be productive.
Joy can never be measured, quantified and have accountability brought to it.
With joy a non-instrumental politics has a chance.13

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Giulia Crispiani