Aziz Hazara è nato nel 1992 nella provincia rurale di Wardak, nella regione centrale dell’altopiano afghano: la sua terra, da quanto ne ha memoria, è stata sempre il teatro di invasioni, sedicenti liberazioni e nuove oppressioni.
Negli spazi di ICA presenta un’installazione multimediale, a cura di Francesca Recchia, racconto del complesso e stratificato dramma identitario che pervade l’Afghanistan negli ultimi decenni.
L’intreccio fra trauma e ricordo è ben chiaro fin dal primo lavoro che si incontra, I am looking for you like a drone, my love (2022): una fotografia di dimensioni ambientali di caotici cumuli di rifiuti, plastica, legno, residui di dispositivi elettronici. È una veduta dal cielo, scattata a circa sessanta chilometri dalla capitale, in un territorio che non troppo tempo fa era la più grande base aerea degli Stati Uniti vicino all’antica città di Bagram. Hazara sceglie lo sguardo oggettivo di un drone, strumento spesso impiegato nelle azioni militari, ma tale pretesa di oggettività è presto infranta dal moto sentimentale che traspare dal titolo. La fotografia sembra bisbigliare: quanto è difficile trovarti, amore mio, in queste macerie?
Quegli oggetti consumati e abbandonati, ripresi anche nella serie Coming Home (2021- in corso), diventano nella ricerca di Hazara il martoriato ritratto di una nazione e di un popolo dalla storia millenaria, per decenni saccheggiata fisicamente e simbolicamente, prima dallo scontro afgano-sovietico e dalla guerra civile, poi dall’occupazione da parte degli Stati Uniti e dai tentativi di politica oppressiva dei Talebani. La narrazione di questo dramma storico si fa più efficace con l’installazione Bushka Bazi (2023): una serie di taniche gialle che, usate come casse acustiche, diffondono un collage sonoro negli ambienti espositivi. La traccia audio dell’installazione è composta da voci umane che intonano melodie tradizionali, messaggi che esortano la popolazione a riunirsi in momenti di preghiera nelle moschee, frammenti di sermoni interrotti da sirene e dal rumore dei droni. Quei barili, in afgano “bushka”, sono la variante in plastica di contenitori in metallo impiegati durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale per trasportare il gasolio e, negli ultimi decenni, utilizzati per la vendita di olio commestibile nonché per stoccare l’acqua potabile per uso domestico. Durante l’invasione degli Stati Uniti e della NATO, queste taniche si sono trasformate in vere e proprie armi usate negli attentati kamikaze, diffondendo, nella società afgana, una minaccia che era ignota negli anni dell’occupazione sovietica e della guerra civile. “Pur rimanendo oggetti essenziali nella vita quotidiana – spiega Hajra Haider Karrar, nella pubblicazione che accompagna la mostra – i bushka diventano fonte di paura e angoscia perché sono utilizzate anche come bombe e autobombe […] ed è così che si materializza un’ennesima manifestazione del trauma piscologico per cui la paura e la sfiducia si insinuano nella vita”. Anche in questo caso, Hazara enfatizza il potenziale critico dell’opera con un risvolto linguistico: nel titolo la parola “bushka” è seguita da “bazi”, vocabolo persiano che assume diversi significati alla luce del contesto o in relazione al prefisso con cui è usato. In questo caso, con riferimento al contesto politico recente, “bazi” significa scommessa, gioco che non si sa come andrà a finire, ed è spesso usato con ironia noir nei confronti delle ONG locali, nate a seguito dell’instabilità politica, per manifestare la dubbiosa perplessità in merito al loro possibile operato.
Il ricorso a una pluralità di linguaggi e la stratificazione narrativa consente a Hazara di evocare con efficacia l’aggrovigliato paesaggio visivo e sonoro dell’Afghanistan, ribadendone con lucidità un’identità che, seppur conserva strenuamente le radici di una tradizione colpita ma mai disintegrata, risulta ormai inevitabilmente pervasa da contaminazioni occidentali e dall’ingerenza degli stereotipi socio-politici generati nei decenni di occupazione.
Accanto alle opere citate – che mi sembrano le più convincenti fra quelle esposte –, Hazara propone le stampe d’archivio Chalk Drawings (2020), dove una mano disegna una scatola di gesso attorno a sandali di plastica nera e il video Takbir (2021) nel quale l’artista ricorre alla ripetizione sonora e gestuale per narrare le forme di ritualità quotidiane che si sviluppano nell’ambito di un conflitto.
Suggestiva, infine, l’opera che dà il titolo alla mostra, Condemnation (2023), un’installazione composta da frammenti di carta di lettere arabe, accumulati sul pavimento. Anche in questo caso l’artista ci invita a leggere l’opera su più livelli: le ripetute invasioni e oppressioni politiche subite dall’Afghanistan hanno lasciato spazio a proclami di condanna, tanto numerosi quanto vani, rivelatesi nient’altro che le ennesime macerie, certo più effimere delle tonnellate di detriti, ma non meno feroci.