Nei primi anni Sessanta dell’Ottocento Édouard Manet licenziava un dipinto dalla storia travagliata. Entro un fondale neutro un matador, anzi un uomo, giace disteso al suolo: è morto stecchito. Il compianto veste un paio di calzettoni bianchissimi, di splendida fattura; il tipico costume del torero, il fulgente Traje de Luces, viene reso da Manet di un nero così saturo da parere vivo e colmo di respiro. In questo spazio apparentemente senza storia, il corpo immortalato in obliquo delinea un orizzonte radente e un punto di vista estremamente ribassato: la pittura, anch’essa lunga distesa, mira a raggiungere il grado zero della narrazione.
La personale di Giacomo Montanelli da Area Treviglio si compone di quattro dipinti e una scultura. Si potrebbe immaginare questa serie di lavori unita da una traccia in filigrana che, effondendosi come una melodia lontana, testimonia i modi mediante cui Montanelli intende la pittura come racconto del mondo in quanto, e solo in quanto, racconto della forma. Grammatica sottesa delle cose o, per dirla con gli antichi, imago mundi: una cronaca laterale di ciò che accade ai margini dei dittici e dei polittici, tra le ante socchiuse, e ancor più nelle lande strette delle predelle che, al pari del morto, giacciono ai piedi delle pale, sognando le cose di sottecchi. Un’indagine metalinguistica, quella di Montanelli, condotta a tempo perso e, perciò, con cura zelante – il corpo del morto è il corpo della pittura e pure quello del pittore, l’assenteista impegnato per eccellenza. Come descrivere, tuttavia, il cuore di suddetta inchiesta?
A un primo sguardo i lavori presentati da Montanelli paiono declinare un soggetto dichiarato in maniera limpida: quello del risvolto che sempre cinge le cose e che potremmo definire nei termini di sottosopra o fuoricampo. Un disimpegno sommerso, per tanti un paradiso, dove rintanare responsabilità e pensieri. Se tale rovesciamento mira a scorgere l’essenza del reale, quasi quest’ultima se ne stesse acquattata (l’ennesima pseudo-dormiente) sotto un lenzuolo o una tovaglia, vano risulterebbe cercare in esso una dimensione alta nel senso più convenzionale del termine. Non vi è in Montanelli la volontà di comporre simbologie ardite, ma solo il desiderio di escogitare piccoli rompicapi; non di dar voce a grandi narrazioni, bensì di vivere un’attesa che l’artista sa non avere luogo, inizio e fine: l’enigma è perennemente dato nella sua ordinarietà nuda e cruda, risiedendo in ciò che si vede. E ciò che in effetti si scorge o si crede di scorgere sono una teoria di gambe di tavoli, sedute, cavalletti e stativi; incroci di angoli, pareti e pavimenti; traverse curve e schienali cangianti; interni domestici scorti dall’esterno, nel mezzo di una notte qualsiasi.
Trasparente, l’enigma viene tratto e si insinua concettualmente, ossia sul piano dell’esperienza, in quella regione infinitesimale che separa le cose dalla loro rappresentazione. È forse questo lo scarto profondo, certamente inventivo, che conferisce a tali lavori uno statuto ambiguo. In essi, la ricerca della forma che cinge ogni cosa (il suo rovescio, appunto), origina un cortocircuito tutto interno alla vita di un’immagine così referenziale da apparire figurativa – le architetture segrete di una sala riunioni svuotatasi in pochi attimi – e, al contempo, strutturalmente astratta. Rinnovando geometrie secolari, tale narrazione non necessita più di storie ulteriori: essa racconta sé stessa, canta il rettangolo, il cerchio e il quadrato, tende l’orecchio alle vibrazioni di un colore che non teme di impiegare.
La personale di Giacomo Montanelli è in questo senso un altrove placido, composto di immagini che trattengono il respiro o si stanno per svegliare da un sonno profondo. “Un notturno mentre l’artista dorme”, anche. Pittura o scultura, tali lavori afferiscono al miraggio e all’apparizione inattesa. In essi, le cose esistono quiete e straordinariamente solide, benché nell’ordine dell’istante: il tempo di un respiro o di un accenno di movimento e le composizioni mutano lievi sotto i nostri occhi. Le presenze che tengono in equilibrio tali allucinazioni sono assunte in qualità di forme che non producono ombra: così una falena, un servo muto, un Van Gogh. Vi è anche un piffero, stoico e solitario, che attende di essere suonato: quando accade, la rivoluzione si realizza sempre troppo tardi, accompagnata da una melodia che risuona in lontananza, leggerissima.
– Valentina Bartalesi