Diana inaugura del suo spazio a Milano la mostra personale di Sophie Jung, “Reifiction”. Il lavoro di Jung spazia attraverso molteplici discipline e pone acutamente al centro della propria ispirazione l’unione di complessità e criticità, ricorrendo al linguaggio, allo scatto fotografico, alla performance o ad assemblaggi scultorei cripticamente simbolici.
La sua pratica, che ricorda l’Arte Povera o le sperimentazioni surrealiste, mette in scena assemblaggi classici, divertenti e spesso inquietanti di oggetti recuperati – rimanenze di negozi, rifiuti raccolti in strada, resti di magazzini, cantieri, mercati e negozi online. Objets trouvés dei più disparati con storie, tempi, consistenze e densità differenti, che l’artista compone con cura in una sintassi multidimensionale. I suoi assemblaggi sono innanzitutto insiemi formali di “cose” o più precisamente delle loro storie, delle appartenenze culturali e socioeconomiche, del loro presunto uso o dei valori rappresentativi che interpretano, e, in senso più visivo, delle loro qualità estetiche; la provenienza di questi oggetti è completamente eterogenea e solo qui trovano un’unione formale. Il lavoro di Jung si confronta con quella che lei stessa definisce “solidarietà materiale”, un’unità solidale della differenza materiale e materialista.
Queste serie eterogenee che costituiscono il corpo, sviluppate intorno alla temporalità, alla materia e alla presenza, non possono essere addomesticate né classificate. Al contrario, l’osservatore è invitato a viverle come uno strumento per cogliere simultaneamente concetti divergenti, come una tecnica per imparare a resistere alla necessità della definizione, della quintessenza o della conclusione.
Nell’uso del linguaggio, l’artista attua un processo simile a quello degli assemblaggi: una volta stabilite le sculture, spesso le “fissa” con i cosiddetti mirror-scripts, sculture di parole formalmente complesse che giocano con i meccanismi riduttivi di creazione di senso a cui le opere d’arte sono esposte e che stuzzicano quell’ansia di definizione razionale del pubblico, pur negandole al tempo stesso attraverso l’uso di format esplicativi contraddittori. I suoi lavori, messi alla prova semioticamente, si pongono come portatori di nuove narrazioni, spesso come una critica dei meccanismi del capitalismo reificante alimentato dal patriarcato che tende a porre quegli stessi oggetti in posizioni di sottomissione. La pratica di Jung è un’opera di totale resistenza. Potremmo dire un’opera di recupero speculativo.
Jung utilizza forme abbandonate potenziandole. In periodi di esistenza in cui ogni definizione originaria, raison d’être o vanto di utilità sono ormai passati, l’artista ricerca indicatori residui ancora materialmente presenti. All’apparenza persi in un limbo di inutilità o mancanza di significato, questi oggetti vengono raccolti per andare a formare nuove combinazioni attraverso le quali Jung cerca di indagare le modalità di libertà che si verificano quando il significante e il significato non sono più perfettamente allineati. Esistere senza uno scopo predeterminato e, anzi, formare polimatericamente la propria finalità, al di là di qualsiasi funzione di servizio neoliberale: in questo risiede il senso profondo della sua pratica artistica.
Questo interesse per l’oggetto in scena prima o dopo l’attribuzione di significato, risale ai suoi primi lavori fotografici, che l’artista riporta alla luce per “Reifiction”. Le sue stampe analogiche in gelatina d’argento, di medio formato, in realtà, piuttosto che determinare il dispiegarsi di un significato sclerotizzato, lo anticipano. Per “Reifiction” Sophie Jung ne riesplora il carattere di serie vuote, compositivamente estranee, nella periferia di Milano, aggiungendo così un’immaginaria dimensione di ambiguità temporale all’indessicalità della fotografia analogica.
Il titolo della mostra “Reifiction”, gioco di parole tra “reification” e “fiction”, riflette il rapporto tra idea e materia proprio dell’artista, anche se in modo retrospettivo. Per Jung è la materia a venire prima, per poi essere “reificata” più e più volte in narrazioni apparentemente astratte. Il concetto di reificazione si complica ulteriormente se applicato al mito di Diana, che si vendica della propria reificazione messa in atto dallo sguardo maschile oggettivante di Atteone – che la spia mentre fa il bagno – reificandolo a sua volta: lo trasforma infatti nella sua preda, un cervo, e lascia che i suoi stessi cani lo divorino – mantenendo così il concetto astratto – ovvero l’io, il soggetto – al suo posto, mentre scambia l’entità materiale, quella del cacciatore, con quella della preda cacciata. Questo scambio di entità materiale e pensiero astratto, di significante e significato è un atto violento, ed è la condanna a morte di Atteone. Il mito rappresenta la convinzione di Jung del potere che tali manovre possono avere; per lei la politica di creazione di senso si esercita proprio attraverso questa capacità di estrazione di presenze materiali.
Il titolo, in modo più oscuro ma in realtà letteralissimo, è anche un riferimento alla parola tedesca che indica il cervo – Reh – l’animale messaggero di Diana, e si può quindi leggere come il Racconto del cervo.
In linea con il suo interesse per gli insiemi recuperati (di spazio, di principi, di coordinate), Jung tratta come un objet trouvé non solo il nome della galleria ma anche lo spazio stesso, e usa il suo marchio in senso letterale per riprendere il tema di Diana, dea protofemminista e reificatrice per eccellenza, prima di farlo completamente a pezzi. L’artista espone una serie di sculture realizzate appositamente per Diana che, sia dal punto di vista tematico che spaziale, trasformano la galleria in un luogo speculo-metaforico del mito. C’è una drammaturgia dello spazio che annulla la convenzionale immediatezza di percezione della galleria. Le tre nicchie all’interno fungono da armadietti a specchio voyeuristici, note private a commento del più ampio manifesto scultoreo della mostra, e offrono ciascuna un punto di accesso diverso per la lettura.
Il détournement della mitologia, che è una costante delle performance dell’artista, il gioco sulla figura del “nudo”, l’interesse per le esistenze polipresenti che spostano i corpi materiali e l’approccio radicalmente femminista a ogni materia a cui si accosta Sophie Jung, ben si adattano a inaugurare l’ambizioso programma della galleria.