Se al senso della complessità si sostituiscono le istruzioni per l’uso. Dialogo con Duchamp di

di 14 Febbraio 2024

Pubblicato originariamente su Flash Art Italia n. 170 ottobre—novembre 1992

Marcel Duchamp, Chien de Jacques Villon allongé près d’une Salamandre, 1904-1905. Collezione privata. Fotografia di Axel Schneider. © Association Marcel Duchamp / VG Bild-Kunst, Bonn 2022.

Achille Bonito Oliva: Cominciamo dalla vostra morte, monsieur. Dalla lapide che ci avete lasciato bene in vista sulla vostra tomba, con la scritta: “D’altronde sono sempre gli altri che muoiono.” Ne riconoscete la paternità?
Marcel Duchamp: È una parola grossa che, data la mia poetica, non potrei mai adoperare. Io, artista celibe per eccellenza, non ho mai voluto figli. Invece di paternità, parlerei di autenticità.

A.B.O.: Un’autentica sciocchezza. Sublime e naturalmente voluta. Un motto di spirito che freudianamente cerca di rimuovere la verità della morte che comunque tocca tutti gli uomini.
MD: Triste democrazia è la morte. Aristocratica è invece l’intelligenza di chi riesce a rendere sofisticata l’evidenza. Partiamo dalla mia affermazione sulla lapide. Evidente che per leggerla bisogna essere in vita, nella condizione di comprendere che morto è l’altro, lo scrittore della frase.

A.B.O.: Splendida spiegazione cartesiana! Potremmo dire, allora, applicando il cogito ergo sum del filosofo francese: “Scrivo e dunque sono stato” oppure “Leggo e dunque sono.”
MD: Una bella estensione mi sembra questa. Ma sempre effetto della mia lapide concettosa. In tal modo sopra il mio scheletro vive perennemente il forte senso d’umorismo del mio metodo creativo.

A.B.O.:
E pensate che questo sia un risarcimento sufficiente? Perché non considerare invece che l’artista è un errore biologico rispetto alla proverbiale immortalità dell’arte?
MD.: Ma questo è l’umorismo della vita. Non poter resistere al tempo col corpo ed aiutarsi invece con la protesi dell’opera a sfidarlo. Esiste un proverbio, se vogliamo poco cartesiano, che dice: “Aiutati che il cielo ti aiuta.”

A.B.O.: Mi sembra un’invocazione della provvidenza. Comunque un atteggiamento di stampo puritano, l’espressione di una moralità protestante che crede nel lavoro, anche se creativo.
MD: Nel mio caso non credo che si possa parlare di lavoro. Come artista, mi sono presto, volutamente tagliato le mani, lavorando di testa, fantasia e sguardo verso le cose. Ho accettato con lucidità le apparenze della vita, il suo quotidiano fatto di molteplici forme prodotte fuori di me. Non mi sono mai sentito un demiurgo, un creatore che sfida il nulla, un inventore di cose sublimi. Semmai un creatore di forme. Un benefattore delle povere cose preesistenti ai miei interventi artistici. Ho nobilitato la banalità, sottraendola all’anonimato e dando ad essa lunga durata. Ho fatto anch’io dei miracoli: ho trasformato per esempio un orinatoio in fontana.

A.B.O.: Ma i miracoli sono tali per la loro rarità. Voi invece siete diventato un moltiplicatore di miracoli. Una contraddizione.
MD: Io ho inventato un metodo miracoloso e dunque estensibile all’infinito.

A.B.O.: È per questo forse vi sentite moderno? Perché avete applicato la moltiplicazione della merce, riproducibile tecnicamente all’infinito?
MD: Ma questo è il modo di rendere laico il miracolo, alla portata di tutti.

A.B.O.: Purtroppo questo è vero. Magari vi sentite un democratico.
MD: Ma no. Quelli che dopo di me hanno adoperato il metodo del readymade sono soltanto operai dell’arte. Come quelli che lavorano in una fabbrica di automobili e riproducono un modello iniziale senza mai diventarne i veri costruttori.

A.B.O.: Anche se ammetto che voi siete il vero costruttore di una metafisica dell’oggetto, nello stesso tempo confermo il mio sospetto ed anche un’accusa: voi siete il progettista di un prototipo di una particolare metafisica. Un prototipo che nella sua moltiplicazione ha perduto per strada il senso della complessità, dando ai giovani artisti la conferma di una slogan molto adoperato per l’uso di alcune merci correnti, quello del “fatevelo da soli!.”
MD: Ma tutta l’arte a pensarci bene, nella sua storia è una sorta di readymade, seppure all’incontrario rispetto all’’usa e getta” del nostro secolo. Ogni artista, anche nel passato, ha sempre preso in consegna stili di altri artisti e li ha spiazzati e trasformati attraverso il proprio uso personale.

A.B.O.: Nel vostro caso ed a partire dal vostro caso si è sviluppato un eccessivo orgoglio intellettuale, la supremazia dell’intelligenza sulla massa degli oggetti quotidiani.
MD: Semmai è la dimostrazione dell’onnipotenza della creatività artistica dilatabile fuori dalla cornice tradizionale. E poi io ho lasciato tante grandi opere, oltre i readymade, che dimostrano un senso di elaborazione complessa, anche materiale, dal Grande vetro a Étant donné.

A.B.O.: Forse nel dubbio?
MD: Non è la certezza a generare l’arte. Certo dev’essere la forma che assume, che poi protegge anche alcuni lati interni sfuggenti ed oscuri.

A.B.O: Gli artisti americani del Secondo Dopoguerra hanno percepito ed utilizzato la certezza del metodo. Invogliati, per loro cultura, dall’abbaglio del prototipo, l’uso prevedibile di un metodo senza memoria di quello appartenente alla storia dell’arte europea.
MD: Non c’ho pensato. Certamente, io ho vissuto a lungo negli Stati Uniti. Ho cercato di proteggere anche il mio lavoro col silenzio, dedicandomi a lungo al gioco degli scacchi. Un gioco che mi ha sempre appassionato per la sua complessità. Ho sempre amato la complessità.

A.B.O.: Lo so che voi non siete un ottimista e non credete nella vittoria. Vi interessa la partita, l’imprevisto delle mosse dell’avversario. il riconoscimento del conflitto e del caso.
MD: Infatti sul Grande vetro ho conservato ed accettato una craquelure, effetto di una rottura per caso del materiale trasparente.

A.B.O.: A voi interessa la trasparenza e la chiarezza. Chiaro è in voi il senso irriducibile della vita. Non a caso nel gioco degli scacchi avete teorizzato la patta, che designa la condizione di stallo tra i due giocatori, senza né vinto né vincitore.
MD: Importante è il gioco e non l’esito finale che implicherebbe sempre la fine della partita e l’uscita dalla regola. Non esiste altra possibilità.

A.B.O.: La paralisi della certezza, dunque. Infatti voi avete dichiarato che “Non esistono problemi perché non esistono soluzioni.”
MD: Questo certamente non rientra nell’ottimismo americano. Conferma semmai che non esiste in nessun campo un metodo vincente.

A.B.O.: Ma sono gli altri che vi vogliono vincitore ad ogni costo, facendovi vincere partite mai giocate o comunque non giocate in prima persona.
MD: Già, il duello ormai secolare con Picasso. Mi è stato detto da più parti che esistono tifosi miei e dello spagnolo, di scontri avvenuti negli ultimi decenni, tra Avanguardia e Transavanguardia dagli esiti incerti.

A.B.O.: Eppure esiste un’affermazione di Picasso che dice: “lo non cerco io trovo.” Non è questa la teoria anticipata del readymade?
MD: Pablo era un vero Don Giovanni dell’arte, un seduttore di forme, nomade, eclettico, cleptomane e masticatore di linguaggi storici e contemporanei. lo invece, anche se non sembra, sono stato portatore di un tic, un’ossessione particolare diventata metodo creativo. Sono stato il produttore di una creatività specializzata. Per questo sono stato molto moderno, per metodo e non per forma. Perché è la forma che dà durata all’arte, la sottrae alla modernità del proprio tempo e la fa viaggiare come un siluro nel passato e nel futuro. D’altronde se guardiamo la storia dell’arte, già nel Seicento il manierista Arcimboldo mi aveva preceduto con i suoi ritratti fatti mediante la raffigurazione di clementi naturali ed oggetti quotidiani. Già il ferrarese Bracelli con i suoi corpi geometrici aveva anticipato il Cubismo di Picasso. Ma l’arte è un processo formale che trova la sua necessità nell’etica dell’artista e determina nuove immagini. Per questo io e Picasso non siamo imitatori del passato e non possiamo a nostra volta averne noi nel futuro.

A.B.O.: Allora restano le opere. Le vostre attraverso la trasparenza mi pare cerchino un rapporto silenzioso e non drammatico col mondo.
MD: L’arte non è mai drammatica, Il dramma semmai la precede sempre. Io credo nella compostezza delle sue forme, nel pudore dell’artista di parlare in prima persona. Se impersonale, l’arte viaggia meglio nel tempo e nello spazio. Senza impedimenti biografici e resistenze esistenziali io so che tutti dobbiamo morire. Nemmeno la mia scritta sulla lapide lo nega, conferma soltanto per il lettore che la vita continua e dunque la verità logica nella mia affermazione. Se anch’io devo morire, solo l’opera resta a sfidare il tempo e lo spazio della diversa sensibilità antropologica. Per questo è meglio approdare ad una forma impersonale, che permetta una lettura limpida e non dipendente dai casi della mia vita. È come realizzare una superficie liscia e senza spigoli, capace di attraversare ogni difficoltà territoriale.

A.B.O.: Ma se è così, perché ci avete lasciato tante pose della vostra vita, fotografate da Man Ray, da Irwing Penn e da altri, che testimoniano invece momenti esemplari da non dimenticare, come il resto della vostra opera?
MD.: Per il senso del gioco ed anche per coerenza poetica. Se ho adottato oggetti esistenti nel mio campo d’azione, posso anche utilizzare l’esistenza del mio corpo come materiale utile per realizzare performance, tableau vivant, messe in posa. Un readymade assistito dalle dinamiche del mio corpo in movimento ed in trasformazione. che usa la fotografia per bloccarlo nell’attimo di una formalizzazione che rassomiglia alla paralisi dell’oggetto. Ho visto con piacere che voi avete realizzato un libro Vita di Marcel Duchamp che analizza le fotografie della mia vita non in termini autobiografici ma come risultato linguistico.

A.B.O.: Questo mi sembra il vostro lato struggentemente manierista, per niente cartesiano, che usa, anzi, il pathos della distanza.
MD: La stessa distanza che trasforma l’oggetto banale in opera d’arte, l’orinatoio in fontana, il rospo della favola nel principe azzurro.Rispetto alle favole antiche, io adopero la modernità di uno sguardo statistico, Oggettivo e neutrale che riconosce la possibilità di trasformazione di ogni oggetto, artigianale ed industriale. Forse per questo sono diventato tanto “popolare” in America. Non mi ha mai colpito la stranezza o la particolarità dell’oggetto. È l’arte attraverso il linguaggio a dare particolarità e stranezza. Non basta dunque l’orgoglio intellettuale. Le cose non si cancellano con l’orgoglio.

A.B.O.: È vero. La vostra lapide è intelligente non orgogliosa.
MD: Non basta l’intelligenza per tenerla dentro la coerenza della mia poetica. Essa è una vera e propria opera. perché formalizza nel marmo l’idea del tempo come flusso intercorrente tra la vita e la morte. Come per Leonardo il quale ha affermato che “La pittura è cosa mentale.”

A.B.O.: Io vi confermo che la lapide sulla vostra tomba nel cimitero francese “È cosa mentale.”

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