1966-2016: cinquant’anni di opere, di interventi, di presenze e di assenze, cinquant’anni di storia che, in collaborazione con l’archivio Emilio Prini gestito dalla figlia Timotea, si srotolano sulle pareti della grande sala del museo Macro come i fotogrammi di un film, in cui ogni scena cita e richiama un momento precedente lasciando allo spettatore il gusto epifanico della scoperta.
E Prini, un nome su un citofono.
Scrittura e riscrittura sono la cifra stilistica di questo artista smisurato ma così poco profondamente conosciuto. Non esistono cataloghi monografici (rara eccezione, Fermi in dogana per la mostra all’antica Dogana di Strasburgo, 1995, che lui comunque trattò come oggetto problematico), rarissime le intervista complete: Emilio Prini ha tenacemente resistito a tutte le dinamiche di promozione, distribuzione e circolazione dell’opera, partecipando al sistema dell’arte con adeguata distanza, sviluppando quella che Obrist definisce una “resistenza alla sovraesposizione del mondo artistico”.
“Emilio c’è e non c’è” afferma Luca Lo Pinto, “l’idea di vuoto, di standard, di reiterazione, di calco come affermazione dell’assenza, caratterizzano il suo lavoro”. Pur essendo uno degli artisti fondanti dell’Arte Povera – partecipa infatti nel 1967 alla mostra embrionale “Arte Povera e IM Spazio” alla Galleria La Bertesca di Genova curata da Germano Celant – non sviluppa mai un linguaggio univoco, una cifra stilistica, come faranno invece i suoi compagni di viaggio, da Michelangelo Pistoletto con i suoi specchi a Mario Merz con i suoi igloo; e dopo una prima assidua partecipazione, dal 1971 lentamente scomparirà da molte delle mostre poveriste successive pur rimanendo fortemente legato ai suoi protagonisti. A La Bertesca, Prini presenta Perimetro misura a studio stanza (1967), un’opera in cui rileva i contorni della sala espositiva arrotolandoli in un rocchetto di neon. È invitato alla celebre “Live In Your Head: When Attitudes Become Form”, nel 1969, ma le sue opere non arriveranno mai a destinazione perché bloccate in dogana. Sul numero di luglio 1968 della rivista Pallone pubblicata dalla Galleria La Bertesca, Prini annota sotto il titolo MA/LI/DU//K/POL/WA una lista di punti e di azioni, 46 per l’esattezza, che costituiscono le idee in nuce di molte sue opere future: questo testo diventa dispositivo di visione conducendo lo spettatore nei meandri della mostra del Macro, come una scommessa sul futuro, come l’almanacco che crea la frattura in Back to the Future (1985) di Robert Zemeckis. Lo Pinto adotta per il layout espositivo un semplice ordine cronologico (lo stesso Prini aveva esaltato la grande efficacia della disposizione temporale consequenziale nella mostra di De Chirico al Pompidou) che lascia volutamente emergere la complessità intrinseca nel corpo stesso dei lavori. Opere, inviti, cataloghi, prove di inviti, ephemera, sono presentati in questa mostra sottolineando l’attenzione quasi maniacale al dettaglio in ogni prodotto realizzato, ideato o semplicemente concepito dall’artista.
Ho preparato una trappola per alice nel paese delle meraviglie, 1968, un appunto scritto in pennarello rosso su un foglio quadrettato, predice i dispositivi e le azioni che Prini congegnerà proprio per sorprendere e inghiottire la storia dell’arte, assimilata alla protagonista della fiaba di Carroll. A inizio anni Settanta Prini avvia una riflessione acuta sull’impiego della tecnologia (camera fissa, monitor, fotocopiatrice, macchina fotografica) e del suo valore d’uso per evidenziare, con una formula, il mantenimento del “valore nominale originario” e la conseguente “addizione del mercato artistico”, Oggetti a consumo, 1969.
Conferma partecipazione esposizione, 1970 è il testo di uno dei tanti telegrammi che nel breve periodo in cui si trova in carcere Prini invia come un’azione artistica ridotta alla sua presenza, a sua volta negata. Negli anni Novanta molte delle idee accennate in precedenza si materializzano nei rilevamenti tridimensionali dello spazio fisico e urbano (Standard piegato in curva, Tre passi da un metro, Scale che scendono al fiume, Muro in curva, tutte 1967-1995). Nel 2008 alla Galleria Giorgio Persano di Torino l’artista espone 22 immagini scansionate in bianco e nero, ingrandite e stampate su Dibond, tratte dai fumetti di Francesco Tullio-Altan, disposte lungo le pareti dello spazio: La Pimpa Il Vuoto ritrae diversi nuclei di dialogo tra l’Armando e la Pimpa alla fine delle sue avventure, intervallate dal vuoto delle pareti della galleria. Obrist ne trarrà l’intervista Un viaggio senza compromessi.
Chiude il percorso Colori, 2016, una serie di 13 pannelli di differenti cromie, un omaggio ai tredici protagonisti dell’Arte Povera presentato postumo alla Galleria Sprovieri di Londra nel 2019. Prini è sempre, più o meno volontariamente, sfuggito al valore economico dell’arte, perché in tutte le sue riscritture, i suoi richiami a opere precedenti che venivano riassorbite ad anni di distanza con datazioni spesso volutamente arbitrarie, non ha permesso catalogazioni e quotazioni omogenee. “Questa mostra, se Emilio fosse vivo, probabilmente non avrebbe mai aperto, o almeno lui l’avrebbe stravolta tutta, continuamente” confida Luca Lo Pinto, perché Prini non amava l’immobilità artificiale delle esposizioni, tanto che spesso poco prima degli opening interveniva cambiando le opere o le disposizioni, se non addirittura boicottando l’apertura della mostra stessa.
Prini, nella continua mutevolezza del suo lavoro è stato in realtà fonte di ispirazione per moltissimi artisti delle generazioni successive che da lui hanno attinto la riscrittura come possibilità non solo nei riguardi dello spazio ma del tempo, dell’opera, dell’idea o della mostra. Questa grande antologica è un modo per studiosi o semplicemente curiosi per addentrarsi con pazienza nella complessità lucida e anticipatrice del suo lavoro.