“Kill your darglings” è la mostra personale di Beatrice Bonino inaugurata lo scorso 20 marzo alla galleria Ermes Ermes di Roma. Lo spazio raccolto ospita sei opere che danno voce ad un presente la cui esistenza si giustifica nel “prima” e nel “poi”. La grammatica della fantasia di Bonino è infatti regolata da un catalogo di numerosi materiali raccolti, interrogati, esplorati e dunque collezionati; vetro, seta, plastica, cartone, gomma, nylon, silicone compongono un universo silenzioso, minimale, ibrido, apparentemente schivo, stratificato, enigmatico, non oggettivabile, vivente. Circoscritti in un’area di 1200 cm quadrati, nell’opera Orlo (2024), riconosciamo, al di là del vetro, una tenda, un foro nel tessuto causato da una bruciatura, una linea orizzontale tracciata da un filo che Bonino, con un approccio ontologico, stratifica e significa. Perché la bruciatura sulla tenda, dall’orlo perfetto, non è stata rammendata?
Anche in Senza titolo (2023) identifichiamo un elemento geometrico in seta, una porta, un’apertura? Forse il ricordo di quelle cornici con il passe-partout in seta marezzata che trovavamo a casa dei nonni e su cui facevamo scorrere le dita da bambini, seguendo e tracciando linee. Stanze, voci, forme, una diffusa a-cromia pulviscolare definiscono il terrain vague dal quale sporgono le opere di Beatrice Bonino, che si affacciano dalla vetrina di Via dei Banchi Vecchi 16.
Collocata su un piano rialzato, l’opera Oinops pontos (2024) accoglie il visitatore: una fotografia ritrovata e fissata nel tempo dall’artista sovrapponendovi un foglio di plastica. Un mare del colore del vino, come dichiarato dal titolo stesso, rosso forse della prima aurora o del tramonto o forse per “l’effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: si impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza” 1. La sfumatura cromatica dell’immagine di derivazione omerica conferma quindi la volontà dell’artista di riattivare il passato attraverso il contemporaneo. Si aggiunga a questo l’approccio paritetico alla cultura, all’artigiano e agli antichi gesti del fare che delinea il percorso personale e artistico di Bonino, i cui studi in lingue antiche, grammatica tradizionale e filosofia del linguaggio, incidono palpabilmente la materia. Bonino, dunque, traccia linee che partono dal contemporaneo e vanno alla ricerca di dimensioni temporali diverse, di memorie e di esistenze.
L’interesse dell’artista per una lingua non più parlata e il recupero di materiali e oggetti scartati – come, ad esempio, la scatola di un cosmetico che riconosciamo nell’opera Senza titolo (2024) – suggeriscono, anche all’osservatore, un processo conoscitivo, elaborato da un lato attraverso l’esistenza stessa di un oggetto, di un individuo, di una cultura come entità stabili, dall’altro attraverso la loro continuità, cui ogni specifica singolarità è soggetta in un divenire continuo. Come Bonino racconta nel testo On the notion of existence a corredo della mostra, l’esistenza è azione e trasformazione, non solo quella che subisce la materia, ma anche quella subita dal proprio sé che tende ad essere trasversale al tempo.
1) Hi, fine, what have you been doing?
2) Not much. Just hanging around yes, just being here.
1) Just existing
2) Yes, I exist
1) Mee too
Attraverso questo dialogo paradossale, che Bonino riprende da una lettera di Mike Kelley, comprendiamo che il solo esistere è azione e che – come evidenziato da Chiara Siravo nel testo critico che accompagna la mostra – mutuando il concetto di esistenza dall’antico pensiero filosofico indiano, occorre riflettere sulle nozioni di essere e di fare e su cosa le accomuna, poiché entrambe rappresentano allo stesso modo la sintesi dell’esistenza.
D’altra parte, il titolo della mostra “Kill your darglings” è un’espressione utilizzata nella scrittura creativa per suggerire di eliminare quanto possa risultare barocco, ridondante, esaltando piuttosto la sintesi e l’essenziale; uccidere i propri personaggi, sintetizzare le descrizioni è esattamente quanto realizzato in questa mostra personale da Bonino, non un aggiungere bensì un levare che rimanda al visitatore, così maggiormente sollecitato, piuttosto che disorientato dal “molto”.