Un titolo ambizioso e programmatico: “Renaissance”. Una mostra che ruota attorno ad alcune domande essenziali: in che modo la nuova generazione di artisti e artiste italiani/e si sta rapportando alla propria eredità culturale? Quali metodi e strategie sta adottando per ripensare questa stessa tradizione? Come si costruisce sulle rovine del passato?
Curata da Leonie Radine e organizzata in occasione dell’assegnazione del VG Award della Fondazione Vordemberge-Gildewart, “Renaissance” è allestita al terzo e al quarto piano di Museion, a Bolzano, e accoglie le opere di quindici artisti e artiste under 35 di base a Milano e nell’Alto Adige: AliPaloma, Monia Ben Hamouda, Costanza Candeloro, Filippo Contatore, Isabella Costabile, Binta Diaw, Giorgia Garzilli, Sophie Lazari, Lorenza Longhi, Magdalena Mitterhofer, Jim C. Nedd, Luca Piscopo, Raphael Pohl, Davide Stucchi e Tobias Tavella.
Le artiste e gli artisti selezionati, come ha sottolineato la curatrice, condividono un approccio “rigenerativo e critico” rispetto alle differenti identità culturali ed esprimono quest’attitudine sia in termini di recupero e reimpiego di materiali, oggetti e immagini, sia nella reinvenzione di ritualità, comportamenti, “standard” estetici e sociali.
Se le mostre generazionali allestite in Italia negli ultimi anni sono state quasi sempre pensate come ampie e generiche mappature, spesso prive di una reale direzione critica, “Renaissance” ha il merito di individuare una precisa linea di ricerca, una chiave interpretativa che non resta isolata al concept curatoriale, ma è confermata dalle stesse opere esposte. Tutti gli artisti invitati, infatti, sembrano insistere, in maniera più o meno evidente, sulla ripresa, il riciclo e la conversione di immagini e materiali già “informati” e sul ripensamento di idee e concetti preesistenti, adottando una metodologia transdisciplinare che contempla media e linguaggi diversi.
Senza dubbio, si potrebbe obiettare sul fatto che questa stessa linea di ricerca non sia l’unica – o la più rappresentativa – di una scena artistica complessa e plurale come quella italiana, e che l’approccio “rigenerativo” proposto da Radine non costituisca certamente un elemento di novità nella storia dell’arte – almeno da cent’anni a questa parte. Tuttavia, ciò che sembra necessario sottolineare è la mancanza di simili iniziative nel panorama espositivo italiano, dove le (poche) istituzioni dedicate al contemporaneo preferiscono spesso optare per la celebrazione dei maestri degli anni Sessanta e Settanta, per la riscoperta (doverosa, ma quasi ossessiva) di artiste dimenticate o scarsamente considerate, per le collettive approntate seguendo le mode teoriche del momento, per la consacrazione delle varie star del sistema dell’arte internazionale.
Nei suoi limiti – il più evidente è certamente la limitazione territoriale della ricerca – “Renaissance” rappresenta quindi un’occasione importante, anche perché ogni artista selezionata/o ha avuto a disposizione un’ampia sezione degli spazi di Museion, e ha potuto presentare quasi una piccola personale, esponendo in alcuni casi anche sei o sette lavori, sapientemente orchestrati nell’allestimento ideato dallo studio milanese (ab) Normal.
La mostra si apre con un’opera di AliPaloma intitolata Dorn im Auge (2023), una scultura in legno di ciliegio fresato che l’artista altoatesina ha realizzato scansionando la spina di una rosa trovata nel giardino di casa della nonna. L’opera sembra minacciare i visitatori che varcano l’ingresso dello spazio espositivo e agisce come una sorta di monito, come una “spina nel fianco”, riportando l’attenzione del pubblico a quello sforzo critico e immaginativo che ogni forma di “rigenerazione” richiede. Nello spazio adiacente, Costanza Candeloro presenta le sculture Lolita Turns 67 (2022) e Sleeping Beauty (2022) – due opere modellate a partire da alcuni video tutorial dedicati alla skincare – assieme a due medaglioni in ceramica smaltata che rimandano alla questione del lavoro riproduttivo della donna e alle dinamiche economiche del mondo dell’arte. Alle pareti della sala, inoltre, l’artista bolognese dispone, in un’inedita installazione, le pagine del suo libro Vagabondi Efficaci (2019), una collezione di testi in cui il tema del camminare diventa una “disposizione poetica”, un modo per ricalibrare il nostro rapporto con lo spazio e col tempo.
Nello stesso ambiente, dall’altra parte dei tendaggi neri che dividono gli spazi, Davide Stucchi gioca sul filo dell’invisibilità e del nascondimento, tematizzando l’assenza del corpo come condizione essenziale del transito, della libera contaminazione tra mondi reali e fantastici. Ed eccolo allora mentre allaccia le scarpe a una griglia di plastica – Laces with no traces (2023) – o mentre trasforma dei calzini di spugna nei tasti di un pianoforte pronto a suonare il chiaro di luna – Suite for Suite (2023). Al primo piano di Museion, inoltre, Stucchi interviene con spirito mimetico e adattivo anche nella mostra “The Weight of the Concrete” – a cura di Tom Engels e Lilou Vidal in collaborazione con Leonie Radine – realizzando un elegante display per i lavori dell’artista e editore torinese Ezio Gribaudo, una scenografia tutta giocata sull’equilibrio di luci artificiali e naturali, che esalta i rilievi bianco su bianco di Gribaudo, i suoi “cieli” astratti e i suoi “logogrifi”.
Un nucleo consistente delle opere di “Renaissance” si sofferma sull’indagine di memorie, rituali, credenze, sulle storie di migrazione e sulle pratiche spirituali. Monia Ben Hamouda (vincitrice del VG Award) riprende e riformula la tradizione dell’aniconismo islamico e dà vita a una composita scultura in acciaio sospesa su un paesaggio olfattivo fatto di peperoncino, curcuma e curry. Sophie Lazari rievoca il fenomeno culturale del tarantismo allestendo un’installazione multimediale – ritus resurrectionis (2024) – che combina musica, immagini e parole. Binta Diaw insiste sulla messa in discussione della rappresentazione eurocentrica e patriarcale del corpo femminile ed espone un’opera partecipativa – The Land of Our Birth is a Woman (2021) – realizzata grazie all’incontro di diverse donne con un background migratorio residenti in Alto Adige.
La pratica del reimpiego trova una delle sue espressioni più significative nei lavori recenti di Isabella Costabile che, nel contesto di “Renaissance”, presenta quattro composizioni scultoree composte da materiali estremamente eterogenei. Questi assemblaggi oggettuali sono insiemi astratti che rendono visualizzabile un processo di trasformazione e di sintesi; sono combinazioni aperte che vivono di un’esistenza autonoma e assieme riflessa, poiché se da una parte rimandano a quegli scarti che l’artista rinviene nelle soffitte polverose o sulle spiagge toscane, dall’altra vivono su un piano puramente virtuale e immaginativo: sono “ricevitori di pensieri” fatti di paralumi e imbuti da cucina, sono “appartamenti per ragni” costruiti attorno a vecchi carrelli e a tubi di irrigazione.
Anche l’artista sud-tirolese Tobias Tavella si concentra sugli oggetti di scarto e presenta un’unica grande opera intitolata Atmosphere Conductors: Bridging the Urban-Natural Divide (2024). Collocata al quarto piano di Museion, dove la mostra sembra respirare maggiormente, l’installazione di Tavella è composta da un cumulo di terra, piante e sassi proveniente da lavori spondali effettuati non lontano dal fiume Talvera. Su questo mucchio di materia organica e inorganica, l’artista ha collocato un tamburo (che i visitatori sono liberi di suonare) realizzato con una grossa antenna parabolica trovata nei pressi del ripetitore del Colle, a Bolzano.
L’altro grande bacino da cui attingono gli artisti e le artiste di “Renaissance” è quello delle immagini pubblicitarie, cinematografiche, televisive. Giorgia Garzilli, ad esempio, ripropone scene tratte da Law and Order o da The Blues Brothers e, senza alcun intento riproduttivo, le dipinge alterandone sottilmente la trama. Qua e là, appaiono piccoli e inquietanti dettagli che deviano il corso dell’immagine: in un dipinto che cita il celebre “scontro” televisivo tra Mario Monicelli e Nanni Moretti, nella parte bassa della tela, compare un piccolo coccodrillo al guinzaglio, che se ne sta lì, come se nulla fosse, in mezzo ai piedi dei due registi.
Lorenza Longhi, invece, preleva immagini dal mondo della comunicazione, della pubblicità e della moda, ma anche dalla storia dell’arte, e le impiega in maniera diretta all’interno di pattern e griglie di vario formato. In The Maid (2022), sovrappone la riproduzione del quadro di un artista tedesco di metà Ottocento a una pagina della rivista Max. In Un Été (2022), sotto la scritta “Still, The Standard”, accosta la pubblicità di una Porsche alle etichette di un siero rivitalizzante Chanel.
Oltre a sculture, dipinti e installazioni, gli spazi di “Renaissance” accolgono anche immagini in movimento e fotografie, dalle istantanee nostalgiche e misteriose di Jim C. Nedd alla serie in bianco e nero scattata da Luca Piscopo, La Camera Ardente (2020 – in corso), che trae ispirazione dal cinema hollywoodiano e dal neorealismo italiano. Sullo stesso piano del museo, Raphael Pohl allestisce una messa in scena spiazzante in cui due tornelli defunzionalizzati e due contenitori per granite sembrano assistere alla proiezione di un film – intitolato at its edge lies the bride’s forsake shawl (2023) – che documenta la routine di un panettiere georgiano. Filippo Contatore, invece, presenta un video in cui rilegge la tradizione locale del fabbro riattivando la fucina dismessa dell’artista bolzanese Franz Messner, mentre Magdalena Mitterhofer ci invita a riflettere, assieme ai personaggi del suo film Corte (2024), sulle idee di progresso e radicalità, esaminando il conflitto generazionale tra un anziano scrittore e un agguerrito gruppo di millennials.
Sebbene il progetto curatoriale di Radine risulti rigoroso e coerente, sia sotto il profilo della selezione sia per quanto concerne l’allestimento e il display espositivo, un aspetto che sembra problematico, o quantomeno irrisolto, è il riferimento al Rinascimento e all’Arte Povera che appare nel comunicato stampa, in cui si legge: “In vari modi transdisciplinari, tutte e tutti gli artisti tematizzano questioni di appartenenza, affermando che l’identità culturale è qualcosa di fluido, per nulla scolpita nella pietra. In questo modo, i noti concetti rigenerativi di Rinascimento e Arte Povera vengono tradotti nel qui ed ora e assumono un nuovo significato”.
In che modo le artiste e gli artisti italiani stanno ripensando questa eredità? Siamo sicuri che la loro attitudine alla reinvenzione e al riciclo derivi o sia in qualche modo legata a queste esperienze?
Sono domande che avrebbero potuto trovare delle risposte più elaborate, soprattutto nel catalogo della mostra – un volume molto essenziale per quanto ampio e rispettoso del lavoro di ogni artista – dove l’utilizzo del termine Arte Povera rischia di risultare fin troppo generico.
Ciò che appare sempre più evidente è la necessità di elaborare concetti e strumenti interpretativi che non affondino più in un passato mitico e irrecuperabile – che prende i nomi, a seconda delle stagioni, di Arte Povera o di Transavanguardia – ma che siano calibrati sulle contraddizioni del tempo presente, sulla possibilità di immaginare un nuovo inizio. Forse il primo passo da compiere per superare quest’impasse teorica e critica è quello di emanciparsi da una tradizione che, negli ultimi anni, è stata fin troppo celebrata da musei, istituzioni, gallerie e dallo stesso mercato dell’arte. Una tradizione che, sebbene costituisca un fertile repertorio di forme, idee e progetti, è ormai diventata una presenza pervasiva e ingombrante. Per molti giovani artisti italiani l’Arte Povera è l’elefante nella stanza che divora e sottrae spazi critici, museali, editoriali e persino immaginativi.
Per innescare un reale processo di rigenerazione, probabilmente, è indispensabile operare uno strappo profondo da questo passato eroico e intoccabile, una consapevole dimenticanza, un oblio produttivo, e procedere finalmente a tentoni, liberi dalle radici, dai maestri e dagli elefanti, correndo il rischio di sbagliare, fallire, rinascere.