La 60a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, curata da Adriano Pedrosa e inaugurata lo scorso aprile, fin dal titolo “Stranieri Ovunque–Foreigners Everywhere”, promette di riposizionarci di fronte alle “molteplici crisi che influenzano il movimento e l’esistenza delle persone all’interno di Paesi, nazioni, territori e confini”1 attraverso le opere di artisti queer, outsider, indigeni. È una Biennale che vuole stimolare una riflessione su molteplici livelli, costringerci, da un lato, a confrontarci con l’alterità e l’esclusione – interrogandoci su chi è considerato “straniero” e perché – e dall’altro, invitandoci a riconoscere l’universalità e la pervasività di questa condizione, suggerendo che le dinamiche di appartenenza e identità sono questioni che richiedono una comprensione e una risposta collettiva.
Non credo di sbagliarmi affermando che tra gli addetti ai lavori, almeno quelli di base alle nostre latitudini, questa proposta è stata accolta con una certa aspettativa, curiosità ed entusiasmo in quanto risponde al desiderio di un mondo dell’arte meno occidentalizzato, a favore di uno polifonico dove vengono raccontate diverse storie dell’arte che nascono da “altri” modi di vedere. Ma, durante le giornate di inaugurazione, l’atteggiamento di molti spettatori comunicava un certo spaesamento e i commenti nei giorni successivi hanno confermato questa prima impressione affermando che la mostra sembra perdersi nelle proprie ambizioni. A partire da Nicolas Bourriaud che, nella sua recensione su “Spike Art Magazine”, sostiene che questa Biennale non fa altro che perdere il suo focus per diventare “uno spazio sicuro per l’essenzializzazione del folklore”2, in tanti si sono chiesti se l’esposizione di Pedrosa è riuscita nei suoi intenti, ponendo questioni non scontate rispetto alle strategie curatoriali messe in campo.
Chi scrive non ha risposte certe ma ha avuto l’opportunità di soggiornare negli ultimi anni in alcuni paesi del Sud Globale visitando artisti, musei, comunità indigene e di conoscere in prima persona alcune realtà da cui provengono gli artisti presentati. Viaggiando per questi paesi, il tema dell’identità, strettamente interconnesso al problema indigenista, è forte e di per sé solleva molteplici aspettative e domande aperte. Nelle nazioni che ho visitato, tra le popolazioni del Paraguay, Cile, Bolivia, Argentina e Brasile, l’indigenità oggi rappresenta una sfida piuttosto che un retaggio del passato, come siamo abituati a considerarlo attraverso i nostri sguardi coloniali. Si tratta di sviluppare un rapporto concreto di appartenenza al mondo e fare sì che questo venga riconosciuto politicamente, oltre che storicamente. L’indigenità mette in discussione il superficialismo di una modernità che, ad esempio durante la creazione degli stati nazionali, si è presunta libera da qualsiasi obbligo verso le presenze naturali e le preesistenze, con le conseguenze drammatiche che ne sono seguite. Tra gli abitanti del Chaco, ad esempio, al di qua e al di là del confine tra Argentina e Bolivia, spesso senti persone dire: “Mio cugino è diventato Boliviano/Argentino nel giro di una notte”.
E qui emerge un problema significativo di questa Biennale. Mi tornano alla mente le parole di Jimmie Durham, che ha sempre lottato contro chi lo aggettivava come artista Cherokee. In un’intervista con Dirk Snauwaert, Durham affermava: “You can’t lose your own identity. I wish I could lose my own identity. All my life I wish I could. The problem is you can’t”3. La sua battaglia era quella di farci capire che le identità non sono fisse, come rappresentate nei diorami dei musei, e non voleva essere marginalizzato o bollato con etichette. Sembra che anche Pedrosa tocchi questo tema, anzi ne faccia un cavallo di battaglia, ma che questo quasi gli si ritorca contro perché questa Biennale dà alle geografie un’importanza preponderante e si sviluppa attraverso una sineddoche che si fonda sull’idea che l’opera d’arte racconti l’identità dell’artista.
Gli artisti indigeni hanno una forte presenza all’Esposizione Internazionale d’Arte e le loro opere si possono trovare alle Corderie dell’Arsenale e al Padiglione Centrale, dove il collettivo MAHKU (Movimentos dos Artistas Huni Kuin) ha dipinto un monumentale murales sulla facciata dell’edificio. Come nel caso di MAHKU, le opere degli artisti indigeni sono spesso collettive, non personali, e riflettono una dimensione condivisa del fare. Queste opere incarnano una responsabilità collettiva, dove la moltitudine non è solo umana, ma include anche presenze non umane. Siamo immersi in un mondo di principi agenti, di presenze che chiedono, che pretendono, che gemono e che urlano. Come ci ricorda la sociologa Silvia Rivera Cusicanqui, le entità Ch’ixid, parola che la stessa Cusicanqui apprende dallo scultore aymara Victor Zapana, non sono né bianche né nere, ma sono entrambe allo stesso tempo: “Il serpente è sia sopra che sotto, è sia maschile che femminile; non appartiene né al cielo né alla terra, ma abita entrambi gli spazi, come pioggia o come fiume sotterraneo”4.
L’aspetto collettivo e inclusivo dell’arte indigena mette in discussione l’idea che l’identità di un artista possa essere rappresentata attraverso un’opera individuale – che è invece un requisito specifico del mercato dell’arte. Non a caso, lo stesso Pedrosa sottolinea come, durante la sua ricerca, sia emerso organicamente il tema dei legami di parentela – tanto caro agli antropologi – tra gli artisti: Andres Curuchich e la nipote Rosa Elena dal Guatemala, Abel Rodríguez e il figlio Aycoobo dalla Colombia, Fred Graham e il figlio Brett, artisti Māori di Aotearoa-Nuova Zelanda, Joseca e Taniki Yanomami dell’Amazzonia, Juana Marta e sua figlia Julia Isídrez dal Paraguay, solo per citarne alcuni. In realtà il legame di sangue evidenziato c’entra e non c’entra perché l’identità è fluida e l’arte indigena spesso è legata a cosmologie, cioè ai modi di raccontare oralmente, ma anche visivamente, la genesi del mondo. Questi non sono racconti fissi ma, come i canti delle balene, evolvono lentamente con il tempo includendo elementi della contemporaneità. Pedrosa sottolinea inoltre come le opere esposte rivelino un interesse per “l’artigianato, la tradizione e il fatto a mano”5, cioè quelle tecniche che a volte sono state considerate marginali nel campo delle belle arti. Ma si tratta davvero di interesse? All’interno di un paradigma indigeno la trasmissione di conoscenza non è solamente il passaggio di un mestiere o di un saper fare ma di un vero e proprio vivere collegato all’epistemologia, alla mitologia, alla sussistenza della comunità. Ne sono un esempio le opere tessili di Claudia Alercón e Silät della comunità del popolo Wichí del nord di Salta, in Argentina, esposte nelle corderie. Queste donne lavorano, filano e tingono le fibre del chaguar, una pianta autoctona che raccolgono in periodi specifici dell’anno e solo in quantità necessaria. Il tessuto è il modo che hanno le donne di esprimersi alla propria gente. È legato simbolicamente e spiritualmente all’universo femminile che sostiene la comunità. Partendo da pratiche di tessitura ereditate, vengono composti i disegni che nascono da storie sognate e raccontate dagli anziani al fine di mettere in guardia sulle relazioni che l’uomo instaura e rompe con tutti gli esseri viventi.
Con i suoi oltre 300 artisti, Pedrosa sembra chiederci di abbracciare e comprendere gli altrettanti contesti che popolano questa vetrina internazionale. Tuttavia, ci fornisce davvero gli strumenti necessari per addentrarci nei mondi complessi che la abitano? L’ambizione di questa mostra avrebbe forse richiesto un approccio curatoriale ancora più audace e performativo anche se nessuno può negare i potenziali futuri che questa rassegna ci farà esplorare e a immaginare.