Eva Fabbris: Il punto è un po’ sempre: da quale prospettiva osserviamo il passato? Da dove prendiamo spunto per risolvere o sfidare le nostre urgenze? Se il bacino sociale in cui ci muoviamo, agiamo, poetiamo, produciamo cambia, e ormai diamo per certo di poter leggere questo cambiamento sempre meno nell’ottica del progresso, in cosa l’arte, prodotta prima di questi cambiamenti, ci assiste e ci ispira? E nel farci questa domanda, ce n’è un’altra implicita: l’arte, che risponde o ancor meglio anticipa il proprio tempo, funziona per generazioni o deve assurgere al canone, aspirando alla dimensione di classicità? Falso problema! C’è un presente nel quale la produzione artistica si radica, e c’è la dimensione della poesia che si intreccia allo spirito del tempo, che a volte è circolare e a volte è una freccia. In ogni caso c’è sempre qualcuno che ha fatto prima di noi qualcosa di affine a quello che vogliamo fare noi, con cui ci confrontiamo con desiderio, ammirazione e sfida. Il presente, inteso come intreccio di sensibilità e temperie politica, ora ci impone di guardare a questo sentimento non solo nell’ottica delle “paternità culturali”, ma anche delle “maternità”. La collana editoriale promossa da Gucci e intitolata Prospettive, è principalmente dedicata ad esplorare la storia culturale e sociale di alcune città significative per il brand e per il suo direttore creativo Sabato De Sarno, ma il volume numero 3 ha affrontato un tema diverso: la parte, appunto, femminile della produzione artistica, creativa, intellettuale in Italia. Sabato, Giovanna e io abbiamo deciso di declinare questo tema secondo la prospettiva dello sguardo tra generazioni, e abbiamo chiesto a circa cinquanta artiste under 40 di farci sapere quali fossero le figure da cui si sono ispirate, che considerano dei precedenti della loro pratica, che hanno influito sul loro fare e il loro pensare. Nel libro non abbiamo svelato chi ha citato chi, e non lo faremo qui; ma dato che ci troviamo in un annuario, abbiamo pensato di condividere un risultato significativo per il nostro presente, e cioè quali sono state le “anticipatrici” che sono ricorse tra le menzioni e le passioni delle artiste giovani e pre/mid-career che costituiscono oggi la scena artistica. Provando a evitare il buffo rischio della “classifica”, ma anche avendo ben chiaro che non stiamo enunciando i risultati di una solida indagine sociologica, bensì di un carotaggio che reclama una dimensione di scambio e gioco, eccoci a osservare un po’ i risultati di questa raccolta: la più nominata è Carol Rama, seguita a stretto giro da Marisa Merz e poi, per me sorprendentemente per motivazioni disciplinari, Amelia Rosselli. A seguire, con lo stesso numero di menzioni ci sono due figure diverse tra loro come Silvia Federici e Liliana Moro; e ancora, in un “pari merito” curioso Maria Lai, Isabella Rossellini e Lea Vergine… Dato che la cornice discorsiva è il passaggio generazionale, Giovanna – che ha circa 10 anni meno di me – e io, abbiamo chiesto a Marta Federici, coetanea di Giovanna, di commentare insieme a noi. A Marta e Giovanna chiedo, quindi, qual è la vostra impressione su questo esito? E più in generale, trovate metodologicamente valida questa azione di svelare radici storiche e identitarie?
Giovanna Manzotti: È stata proprio quella dimensione di scambio e gioco che citi tu, Eva, che ha permesso alla pubblicazione di prendere una piega insolita durante la sua lavorazione. Il timone del libro, che fino a poco prima della sua stampa praticamente non esisteva – o perlomeno non era ancora visibile ai nostri occhi – ha preso la sua direzione definitiva solo verso la fine del nostro operato. I nomi delle pioniere svelateci delle artiste under 40 sono arrivati nel “farsi” stesso del libro che possiamo dire quindi essere stato costantemente nutrito da immaginari che nessuno di noi aveva previsto a priori e nemmeno poteva prevedere. Perché ne sono emersi sguardi sul mondo che se da un lato ci hanno sorpreso per lateralità e visione pionieristica, altre volte hanno confermato la centralità che alcune figure continuano ad avere nella nostra storia culturale. E questo non era da dare per scontato, soprattutto perchè le artiste invitate in questa “indagine” sono nate tra il 1998 e il 1984. Riesco però solo ora a vedere con più lucidità quanto ne è emerso e le tue domande arrivano puntuali. Avere da un lato due figure forti e di animo inquieto come Rama e Merz il cui operato è molto legato ad un vissuto esistenziale mi ha dato conferma di quanto una cifra intimista del fare sia ancora oggi un elemento che carica di un valore universale tutto il lavoro e la ricerca artistica e più creativa in generale. E se Lea Vergine non poteva mancare nel film di questo nostro pezzettino di storia come figura sensibile che per il suo “voler stare in mezzo a quello che accadeva” tra Napoli, Roma e Milano è stata una rivoluzionaria promotrice, tra le altre cose, di una ribalta tutta al femminile, Amelia Rosselli ha sorpreso anche me, perché è stata citata molto e non solo da artiste che lavorano con il linguaggio e la parola, ma anche da chi fa del corpo il proprio centro di ricerca. Il potenziale di associazioni che nel suo lavoro assume anche lo spazio bianco delle pagine è inesauribile nel tempo. A livello metodologico, ho trovato molto inclusivo e vivace il fatto che chiedere alle under 40 una serie di nomi, abbia poi posto delle domande a noi: come un telefono senza fili, i nomi delle pioniere hanno aperto altre questioni sul come rappresentarle nel flusso tematico e iconografico del libro che si è rivelato così molto dinamico. A ben vedere questo processo è stato quasi antimetodologico e personalmente me ne sono resa conto proprio perché non ci siamo trovate davanti ad una piramide che stabiliva degli ordinamenti, e nemmeno davanti a delle credenze tese a fondare dei santuari, ma a un panorama di mattoncini più mobile e vibrante, che ha dato corpo a un di continuo, quasi si trattasse di un mare orizzontale e senza profondità. Così è successo che volti, opere, parole scorrono nel libro pagina dopo pagina, senza gerarchie e distinzioni, in un racconto potenzialmente infinito e riscrivibile dove nessuna è più pioniera di un’altra. Aggiungo infine, e in generale, che alcune delle figure che sono maggiormente emerse affondano le “radici” del loro vissuto esistenziale e del loro operato in posture a volte più di resistenza, anticipando questioni oggi molto dibattute. Altre sono invece rimaste legate ad uno sguardo più intimista, ma che sulla distanza ha lasciato tracce profonde. Tutte attitudini, le loro, che hanno però sentito la necessità di mettersi all’ascolto delle urgenze del proprio tempo e del proprio ambiente, agendo nel personale e nel collettivo.
Marta Federici: Prima di tutto, vi ringrazio per avermi coinvolta in questa conversazione e scambio! Non avendo io partecipato alla realizzazione della pubblicazione e avendola dunque incontrata per la prima volta come fruitrice, vorrei dire che la cosa che mi ha colpita immediatamente è proprio la sua struttura asistematica e la mancanza di gerarchie di cui parli, Giovanna, che rende l’atto di sfogliare in qualche modo gioioso e inaspettato: quasi subito inizi a chiederti chi potrebbe comparire alla pagina successiva, un po’ come se fossi a una festa e non sapessi chi è la prossima persona che potrebbe presentarsi alla porta. E vorrei anche aggiungere che questa ricerca di percorsi matrilineari mi sembra un bellissimo esercizio proprio per ripensare innanzitutto la categoria del “materno”. Se come dici, Eva, la ricerca di “maternità culturali” nasce in necessaria risposta alle sottrazioni operate dalla tradizione paterna (e patriarcale), e dalla volontà di valorizzare altre identità/eredità, l’esercizio che avete praticato si è anarchicamente sottratto al confronto binario, nel rifiuto di costruire un controcanone che rispondesse a criteri dati. Mi viene in mente la scrittrice Maggie Nelson, che in uno dei suoi libri fa riferimento alle sue autrici “del cuore”, definendole prima le sue “megere melense” e poi le sue “madrine multigenere”. Citando la poesia A Kentucky of Mothers di Dana Ward, Nelson mette a fuoco la centralità della sfida di “edificare un’estetica cosmologica matriarcale” che allo stesso tempo “defeticizzi il materno, svuotando addirittura la categoria” e si domanda attraverso/insieme a Ward: «Ma “madre di” è abbastanza preciso? / Dovrei invece dire “cantatrici di”? […] È giusto, come ho già fatto, definire madri anche loro? È affetto, e se lo è, sono riuscito ad onorarle con il mio canto?». Ecco, il miscuglio di presenze della pubblicazione che stiamo osservando insieme, produce una orizzontalità – di generazioni, discipline, immaginari – che mi pare seguire la direzione indicata da queste domande. Come a dire che la sequenza e i rimandi tra i nomi sembrano non lasciare emergere un criterio di autorità, ma piuttosto di affetto e gratitudine. Pensando agli otto nomi ricorrenti nelle scelte delle artiste under 40 menzionati da Eva, la cosa che mi incuriosisce è senza dubbio la compresenza di figure ormai riconosciute internazionalmente, e che in fondo mi aspettavo di incontrare – quali Carol Rama o Marisa Merz –, al fianco di nomi con percorsi più specifici o trasversali, quali quelli di Amelia Rosselli o Isabella Rossellini. Ho provato a cercare dei minimi comuni denominatori che riunissero queste figure e che potessero aver orientato le preferenze, ma l’operazione è onestamente risultata fallimentare. Potrei dire banalmente che la vera affinità che mi sembra di riscontrare è la singolarità e unicità del percorso di ciascuna. Accanto alla visceralità di Rama troviamo la giocosità di Rossellini; l’oscurità e una certa durezza di Rosselli si confrontano con l’accessibilità e l’apertura di Lai… ad esempio. Anche i loro posizionamenti rispetto alla questione del femminile e del femminismo si declinano in modi diversissimi. Ci sono figure che oggi possiamo riconoscere come fondamentali all’interno di un’analisi storica femminista e che però non hanno mai praticato percorsi di militanza, come Merz; altre hanno fatto della militanza la loro vita, come Federici. Per questa ragione, e al netto delle ricorrenze, ciò che trovo più prezioso nel risultato che qui proviamo a discutere è l’incredibile varietà e la molteplicità non pacificata di interessi e attitudini. Credo che sia il modo più efficace per celebrare l’impossibilità di un “femminile” coerente in ambito tanto creativo quanto esistenziale, e anche la ricchezza e diversità della produzione artistica, letteraria e intellettuale delle donne in Italia, nel tempo presente e passato. Come sappiamo, i temi e le urgenze non possono che emergere nella relazione, nella rete di risonanze e dissonanze. Più nomi aggiungiamo allora meglio è. Per chiudere queste riflessioni, vorrei però anche dire che c’è sicuramente un elemento che mi sembra importante attenzionare, ossia l’interdisciplinarietà, che emerge dalle scelte e quindi la presenza di molte poetesse e di teoriche – e tra le teoriche, mi ha ad esempio colpito che il nome di Federici torni più spesso di quello di Carla Lonzi. Mi piacerebbe chiedervi voi cosa avete pensato registrando questo dato.
EF: Grazie a entrambe degli splendidi rilanci, tanto di sensibilità quanto di linguistica. Anche io mi sarei aspettata Lonzi quasi onnipresente, ma può darsi che il lavoro di ripubblicazione fatto finalmente su di lei nell’ultimo decennio – a cui aggiungerei la menzione della splendida traduzione in inglese fatta da Allison Grimaldi Donahue, che ci ha finalmente permesso di “scambiare” impressioni e ragionamenti sul suo operato al di fuori dell’Italia – l’abbia collocata in una posizione di “classicità”, rispetto alla quale altri temi, come per esempio quello federiciano dell’appropriazione della forza-lavoro femminile epitomizzato attraverso lo studio della persecuzione delle streghe, risultino persino più urgenti… Quello che voglio dire è che probabilmente i temi e i modi di Lonzi si sono forse già sedimentati con consapevolezza in molte delle pratiche delle artiste che abbiamo interpellato; sono acquisiti e anche rilanciati in pratiche che oggi mettono al centro del discorso sull’identità, l’uso della parola e la sua relazione col corpo. Così come è per molte artiste di giovane generazione l’intento attivista più o meno esplicitato nella pratica. Venendo più specificamente al tema della multidisciplinarietà che sottolinea Marta, credo che la presenza di poetesse, ma anche di cantanti (i loro nomi non sono magari state ricorrenti, ma alcune artiste hanno menzionato per esempio Mia Martini, Meg…) sia anche da ricondurre al fatto che si può intendere la domanda che abbiamo fatto sia da un punto di vista di temperamento e disposizione d’animo, che di affinità tematiche ed estetiche. Penso che Rama e Merz siano riferimenti linguistici tanto quanto esistenziali e atmosferici. Anche a proposito di questo la questione dell’accesso alla conoscenza delle pratiche di queste predecessore mi sta molto a cuore. Nella prospettiva che stiamo attraversando, la relativamente recente ristampa dei testi di Lonzi, preceduta da importanti studi monografici, è stata fondamentale tanto quanto la mostra dello scorso anno di Liliana Moro al PAC, co-prodotta dal Kunstmuseum Liechtenstein e curata da Letizia Ragaglia e Diego Sileo. E in questo senso, perchè no, anche l’approdo dei Green Porno di Isabella Rossellini su Mubi… Poter leggere, poter vedere, poter avvicinare contenuti e poetiche senza intermediari, ma con apparati critici, è fondamentale perché accada il tipo di adesione e rispecchiamento tra artiste che stiamo discutendo. Mi piacerebbe chiedervi se ci sono state mostre, letture, visioni, incontri che hanno avuto per voi il valore di avvicinarvi a figure di ispirazione italiane…
GM: Constatare che Lonzi non sia stata tra le più citate ha spiazzato un po’ anche me, e concordo appieno con la riflessione di Eva che apre alla questione “dell’accesso alla conoscenza” sulla quale torno e brevissimo. Tocco anche velocemente la domanda di Marta, dicendo che le pratiche delle under 40 invitate si muovono in ambiti diversi che a volte inevitabilmente si intrecciano. Abbiamo tenuto la maglia il più larga possibile, lasciando loro carta bianca sui nomi delle figure da condividere con noi. Mi aspettavo sicuramente un numero cospicuo di personalità legate alle arti visive – cosa che in parte è stata confermata, anche se non così muscolarmente –, ma ciò che mi ha più sorpreso è stato osservare quanto poetesse e teoriche siano state invece ampiamente messe sul piatto come fonte di ispirazione. Ma ciò che ho trovato molto singolare è che personalità come Patrizia Vicinelli, Cristina Campo e Antonia Pozzi (sebbene non siano emerse come le più nominate) abbiano avuto una risonanza maggiore rispetto a un profilo “consolidato” e più assorbito come appunto quello di Lonzi. Ciò mette forse in risalto il fatto che tra le ricerche delle artiste interpellate ci sia spesso un’urgenza nel trovare appigli dentro a posizioni di generazioni precedenti alla loro che ancora hanno del “potenziale” da rilasciare e che sono rimaste più “permeabili” ai modi e alle sensibilità con le quali oggi le pratiche artistiche più giovani si nutrono, muovono ed evolvono. Mi chiedo allora se questo sia forse legato alle modalità di accesso e conoscenza con le quali alcune ricerche precedenti sono oggi trasmesse in Italia , aggiungo anche con un certo ritardo nel panorama nazionale, rispetto a quanto ciò possa accadere in un contesto più
internazionale. Forse è in questo fertile “scarto” che si verifica «l’adesione e il rispecchiamento senza intermediari» che citi, Eva, scarto che ha però poi bisogno di un seme nutrito da un apparato critico prodotto e tenuto in vita da studi monografici, registrato da mostre antologiche etc… La prima mostra in una istituzione di Patrizia Vicinelli al MACRO di Roma nel 2022 va sicuramente in questa direzione, così come quella di Liliana Moro al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano che mi ha personalmente reso più consapevole di quanto il suo lavoro sia stato letto e vissuto in maniera così poco estesa negli ultimi dieci anni circa, e di quanto la sua pratica tocchi e condensi un linguaggio visivo e sonoro essenziale e senza fronzoli che rintraccio in diversi profili più giovani di lei. Per un’artista come Liliana nata e cresciuta a Milano – e che ha trovato nella città, nelle sue trasformazioni e in generale nel vivere urbano e quotidiano una incessante fonte di ispirazione – la mostra al PAC ha assunto allora uno spessore ancora più prezioso e necessario. È un peccato che questo progetto non sia arrivato cinque o sei anni fa, perché rivedo in così tante artiste mie coetanee o poco più grandi di me un modo affine al suo nello “stare nelle cose”, nel sentirle, frequentarle, elaborarle, e soprattutto nel fare tutto ciò con resistenza, abitando forme di libertà espressiva. Anche la serie Green Porno (2008-2013) di Rossellini, approdata su Mubi a maggio, penso abbia giocato un ruolo non secondario nel mettere in luce un immaginario legato al concetto di meta-corpo e alle sue possibili trasformazioni. Questioni che, nascendo anche come espressione di un vissuto personale, sono divenute nella contemporaneità oggetto di ricerca, studio e sperimentazione in diverse pratiche artistiche. A distanza di più di dieci anni dall’inizio della loro realizzazione, questi microcorti sono più attuali che mai e l’ingegno visivo di Rossellini (che li ha scritti, diretti e recitati) rende questa serie un’operazione performativa che parla il linguaggio delle arti visive e quello della cinematografia DIY senza mezzi termini. La sua abilità è stata proprio nel toccare con intelligente ironia attraverso la lente del mondo animale temi urgenti quali quelli legati al genere, all’identità, alla riproduzione e più in generale al corpo come entità ibrida e alle sue possibili estensioni. La scelta di una piattaforma come Mubi, che ha deciso di distribuirli, assume quindi un valore da non sottovalutare nel contesto dell’accessibilità di cui parlavamo, aprendolo tra l’altro a pubblici eterogenei.
MF: Condivido pienamente le vostre riflessioni e ti ringrazio Eva per aver sollevato un punto così importante come quello dell’accesso alla conoscenza. Nel rispondere alla tua domanda, vorrei prima di tutto sottolineare il fatto che, nella mia esperienza degli ultimi anni, è stato spesso il lavoro di spazi indipendenti e no-profit a produrre alcuni dei momenti più interessanti di primo incontro o maggiore avvicinamento a figure che attualmente sono per me fonte di grandissima ispirazione. Di fronte a certi ritardi istituzionali nello studio e valorizzazione di tante voci e percorsi, trovo prezioso l’operato di realtà più piccole, che con un’azione dal basso si muovono seguendo strategie magari meno sistematiche ma più libere – e perciò molto generative – nel costruire vie di accesso alla conoscenza di pratiche e ricerche che restano ancora ampiamente inesplorate. Uno degli episodi che ho trovato più fertili da questo punto di vista è il progetto Bambine, concepito dalla già citata Allison Grimaldi Donahue insieme alla curatrice Giada Olivotto dell’offspace Sonnenstube, avviato a Lugano nel 2023. Bambine è stata una residenza multidisciplinare dedicata all’approfondimento dell’eredità di Alice Ceresa, scrittrice ticinese – nominata anche nel libro da voi curato – che ha scelto l’Italia come sua casa e le cui opere vengono oggi finalmente ripubblicate dalla stessa casa editrice che sta seguendo anche i testi lonziani, ovvero La Tartaruga, di cui vale la pena menzionare il ruolo importantissimo nella storia dell’editoria femminista, a partire dalla sua fondazione negli anni Settanta. Bambine ha fornito un tempo e uno spazio condiviso, dedicato a traduzioni collettive (dall’italiano all’inglese, sotto la guida di Donahue), a letture ad alta voce, a piccole esposizioni, alla scrittura, alla musica e a momenti conviviali; ha riunito un gruppo di persone con
background disciplinari variegati e di generazioni diverse: artiste, curatrici, accademiche, studenti non ancora laureate. In questo contesto abbiamo tentato di costruire una nuova lettura critica di questa autrice, provando a fare risuonare i suoi temi e le sue parole con l’oggi, attraverso il dialogo e il confronto con le nostre esperienze. Si è creata una comunità temporanea che è diventata depositaria di un tesoretto di conoscenza e che si è poi fatta agente multiforme di diffusione di quell’eredità. Rispetto a episodi espositivi recenti, vorrei invece citare un caso che trovo controverso, ovvero la grande mostra che nel 2024 ha celebrato il centenario della nascita di Carla Accardi – un’altra tra le pioniere citate nel libro – tenutasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma. È stata una mostra che in molte aspettavamo con trepidazione. Vedere così tante opere di Accardi, una dopo l’altra, per me è stato folgorante, mi ha permesso di visualizzare chiaramente l’evoluzione della sua ricerca pittorica – il lavoro sul segno, sui materiali e sullo spazio –, oltre a offrirmi il godimento del rapporto fisico, diretto, con alcune sue opere che non sono facilmente accessibili. Il catalogo ha raccolto una antologia della letteratura critica che ha accompagnato analizzandolo il percorso di Accardi, tutti testi datati tra il 1950 e la scomparsa dell’artista nel 2014, ripubblicati e introdotti dai saggi delle due curatrici della mostra, Daniela Lancioni e Paola Bonani. L’impressione è che la mostra come il catalogo abbiano fatto il punto su posizioni critiche precedenti, mancando tuttavia di una forte lettura che perseguisse la possibilità di una “riattualizzazione” della produzione di Accardi – intendo una interpretazione capace di squadernarne l’opera verso il presente, attraverso l’adozione di nuove metodologie, linguaggi e prospettive. Ho parlato a lungo di questa mostra con molte colleghe e amiche, registrando opinioni discordanti. C’è chi l’ha percepita come un’occasione parzialmente persa – perché si sa che questi momenti istituzionali non capitano tutti i giorni. Ecco mi pare che qui si apra una questione che trovo centrale, e che riguarda la possibilità di bilanciare il rigore filologico con percorsi più rischiosi di interpretazioni che mirano a rompere dettati e schemi di valutazione storico-artistica conosciuti…
GM: La retrospettiva di Accardi riuniva una quantità di capolavori senza precedenti . A me è rimasta impressa la fisicità di alcune sue opere, tanto per l’uso del tratto che per la sperimentazione con i materiali. Ma a metà mostra ho sofferto un po’ la scelta di un disegno espositivo rigorosamente cronologico che, seppur funzionale a valorizzare tutto il suo percorso di ricerca, sentivo un po’ “stanco”, e appunto come dici tu Marta, forse poco rischioso. Poter “squadernare” (bellissimo verbo!) verso lidi ancora poco battuti l’evoluzione del suo operato come artista e donna – creando anche qualche frizione – penso
che avrebbe potuto gettare uno nuovo sguardo interpretativo, ma non per questo alternativo, a quello già fortemente consolidato su di lei. Eva, tu hai avuto l’occasione di avvicinarti alla pratica di qualche artista in particolare?
EF: Riguardando alle precursore presenti nel libro, ricordo che quando un’artista giovane ha menzionato per Prospettive la scultrice futurista Regina Cassolo Bracchi, mi sono chiesta se all’origine di questa scelta ci fosse la mostra, con splendido catalogo, dedicatale dalla GAMeC di Bergamo nel 2021 a cura di Chiara Gatti e Lorenzo Giusti. Credo che il MACRO di Luca Lo Pinto abbia creato occasioni di conoscenza approfondita ed esperienze dirette per i pubblici per quanto riguarda le pratiche di Nathalie Du Pasquier e Cinzia Ruggeri, protagoniste di mostre rispettivamente nel 2021 e nel 2022. E dato che stiamo parlando di dialogo tra generazioni citerei anche delle gallerie giovani che stanno lavorando in questo senso: penso a Vavassori in particolare per me su Lisa Ponti e a Ermes Ermes con Nicole Gravier e Luisa Gardini… Forse la più recente tra queste illuminazioni l’ha rappresentata per me il libro Porpora dedicato alle fotografie che Lina Pallotta ha scattato a Porpora Marcasciano, pubblicato da Nero nel 2023, in occasione della mostra al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato a cura di Michele Bertolino e Elena Magini. Tornando alle esperienze espositive, sono d’accordo con Marta quando menziona la significatività del lavoro critico svolto dagli spazi indipendenti: in questo senso è passato un po’ di tempo, ma la mostra di Greta Schödl da Almanac a Torino nel 2019, per esempio, aveva la dote spiccata di scegliere con tatto le opere giuste per evocare la sua storia lunga e complessa all’interno di un programma essenzialmente improntato ad artisti emergenti. Ora non voglio “difendere” la mostra di Accardi su cui avete mosso dei dubbi metodologici, anche perché purtroppo non l’ho vista, ma vorrei anche ricordare che spesso quando queste artiste vengono raccontate ed esposte in un contesto istituzionale, magari proprio nel formato della retrospettiva, non hanno all’attivo la quantità di mostre su cui quasi sempre contano i loro coetanei di sesso maschile. Quindi chi in questo ultimo decennio cura un progetto espositivo o editoriale dedicato ad un’artista donna italiana spesso si trova nella condizione di essere il primo o la prima a volerla raccontare in modo completo, solido, autorevolmente istituzionale. Quando parliamo delle artiste nate nella prima metà del Novecento, va ricordato che sono state per molto tempo raccontate principalmente come “mogli di”, “figlie di”, “allieve/assistenti di”; mi sono chiesta se Rama non abbia avuto più menzioni di tutte anche perché si è sempre presentata come indipendentissima da questo punto di vista. Lea Vergine con L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940 (mostra allestita a Palazzo Reale di Milano e libro edito da Mazzotta, nel 1980) ha aperto una strada critica e storiografica nuova, in questo senso, che in particolare nell’ultimo decennio è stata perseguita. C’è ancora il rischio della retorica della “riscoperta” o di una prospettiva ghettizzante, quindi credo sia corretto e fondante in questo momento storico in cui sicuramente le artiste non sono più in alcun modo “significant others” rispetto ai loro compagni di strada, interrogarsi e sperimentare sulle metodologie con cui raccontare e contestualizzare coloro che sono state, e sono ancora, pioniere.