Giochiamo al mito? Sulla pittura di Leonardo Devito di

di 22 Aprile 2025

 

«I used to be a little boy

So old in my shoes

And what I choose is my choice

What’s a boy supposed to do?»

The Smashing Pumpkins, Disarm, 1993

 
Souvenir

La parete della mia camera da letto io non l’ho mai vista veramente: la mensola bianca Ikea, il termosifone in fondo, il letto sotto la mensola e davanti al termosifone, io sempre schiena al muro con il pc sulle ginocchia. Mi ero dimenticato di una statuetta di terracotta, quieta sopra la mensola e in mezzo a qualche libro complicato (quelli senza nessuna immagine in copertina), che avevo deciso di riportare a Milano dalla casa vuota di mio nonno. In un certo senso la statuetta è lui: una forma semplice di un finanziere dallo sguardo attento e le mani incrociate davanti; lì come un pezzo di vita mia sulla mensola Ikea sempre uguale, che comprai durante una vacanza in Puglia con i miei genitori, quando ero piccolo e quella statuetta volevo riportarla come souvenir.

Che oggetto potente e che viaggio strano, dalla bancarella salentina alla stanza di Milano, sulla fine della mia mensola accanto al resto della parete, dove ancora sta appeso un disegno a carboncino delle due mani della Creazione di Adamo di Michelangelo. Quello l’ho fatto durante il primo anno di trasferimento a Milano, in un’altra casa e su un’altra parete, e ora lo guardo (ma solo ora) con un misto di inquietudine e tenerezza: tante cose dentro e poi un disegno così pieno di fatica e ingenuità, anatomicamente imperfetto — le linee goffe che, come si dice, “ci avevano provato”. Lo tengo ancora lì perché voglio assecondare una mia scelta misteriosa compiuta mentre lo appendevo la prima volta, ossia quella di mantenere i due fogli — le due mani — ancora più distanziati rispetto a quel centimetro originale del 1511. Sacrilegio, però per me in quel momento era ok allontanare ancora un po’ di più Adamo e Dio. Nulla di che, solo per ricordarmi che c’è ancora tanto lavoro da fare. Chissà oggi quale sarebbe la nuova distanza tra i due fogli, quale forma darei a questo sentire, dilatando con il mio vissuto quella immagine che, ora ricordo, è anche dentro la mia casa natale, su un’altra parete, che però non ha una mensola.

Giochiamo al mito?

Sarà così? Io non l’avevo mai vista veramente la parete, e poi ne ho viste tre: tre case, tre vite, due nonni (il secondo eterno), due mani, una statuetta, Michelangelo, Dio, Adamo, la storia dell’arte e la memoria dei miei anni. Storicizzare la propria vita è un gioco tragico, ma pur sempre un gioco: non si sa se contano di più le azioni di prima, i ricordi di ora, o le scelte nel mezzo. Tutto può costruirsi in immagine, e nel mentre di questa studiata deflagrazione la vita e la storia (di chi?) si confondono: è questa la prima sbilenca contraddizione a cui mi sono legato guardando i quadri di Leonardo Devito, che è del 1997 e ha la mia stessa età.

«Parte sempre tutto da un’esigenza, no?» Mi dice Leonardo mentre chiacchieriamo del suo rapporto con la pittura, e la tranquillità con cui mi pone questa domanda lascia intuire tutta la naturalezza e la necessità che investono gli attimi dilatati dei suoi quadri bisbiglianti, enigmatici e sospesi. Ognuno si lega in qualche modo all’altro, come a formare uno spazio comune, sfasato, allo stesso tempo vicinissimo e lontanissimo: quello in cui è possibile — vedendo — tendere l’orecchio per ascoltare il mormorio del tempo, dei sogni e dei ricordi, come il riverbero che ascoltiamo dentro le conchiglie e che ci ricorda una profondità lontana.

«Sono molto legato all’adolescenza. Spesso parto dal mio vissuto, da un ricordo, e lavoro lì». Siamo ancora in fase di partenza, sostando in quell’esigenza di Devito di dilatare il proprio tempo personale, renderlo simbolo, lasciarlo sfumare, in-definirlo agli occhi di chi, poi, guarderà i quadri. Eppure è lì, nei colori di una parete (ancora) o nei particolari di un mobile, di un animale, o di un oggetto: dettagli che, montati così, non esistono più: sono chissà dove, chissà quando, creando comunque una comunanza particolare con occhi estranei. Forse è comune il perdersi nel gioco tragico della memoria, e lì sta la giocosa seduzione di queste immagini: dar vita al ricordo a patto che muoia la sua fonte originale.

Ci si ritrova un po’ in questo gioco di perdite e sopravvivenze, e per Devito la pittura è l’impalcatura che rende possibile questa alternanza paradossale. Il suo immaginario è un gioco a portata di mano, piccolo e di una tenera monumentalità, in cui la morte dell’io non rimanda una fine, ma innesca una dilatazione nelle trame di riferimenti sotterranei, bisbigliati appunto nel linguaggio pittorico, e impliciti nella stessa costruzione dell’immagine.

Qui mi ritorna in mente la frase di Leonardo: «A me piacciono le cose vecchie, la geometria e la poesia degli oggetti» e, sulla poesia, ripenso ad alcune parole scritte da Furio Jesi in un suo manoscritto giovanile: «Tutto quanto io ho scritto è poesia» insieme ad altre datate 10 febbraio 1961 e citate da Andrea Cavalletti nella prefazione a Il tempo della festa (2013): «Le strane immagini, le vicende misteriose, che le mie poesie contengono, sono quelle delle forze segrete che muovono la materia della vita, costituiscono quella materia stessa. Solo esse possono entrare in una poesia, poiché esse sono la materia viva dell’autodistruzione, e del resto ne posseggono tutto il fascino»[1]. Davanti ai quadri di Devito è possibile contemplare questa autodistruzione ludica e misteriosa? Ma poi di che cosa? Forse della stessa linearità del pensiero, delle parole messe in fila, che invece si confondono nel processo del ricordare e del ri-dare corpo alla propria storia giocosa, inermi nei confronti delle immagini. Ricordano, le parole cadute, un po’ la posa languida del ragazzino in Teatrino, Arrivo dei cagnoloni spazza camino (2024), quasi rassegnato davanti ai tre cani giganti arrivati da chissà dove fuori dal quadro.

Come loro, l’immagine qui è animale: non precede le parole, non le segue, ma procede con esse e sta davanti a loro come i cani che sovrastano il ragazzino. Le immagini qui sono ancora prima dei quadri.

Anche qui l’esempio del quadro di Devito ha deviato il corso delle parole. Si parlava delle “cose vecchie”, che a Leonardo piacciono come possono piacere a un bambino delle scarpe troppo grandi. Si intuisce, nel suo lavoro, un’altra polarità implicita in quella tra memoria e storia: il rapporto tra infanzia e vecchiaia, considerate però non come età biologiche ma posture spirituali ed estetiche. Facendoci caso, anche in questo momento si assiste a una espansione (e a una conseguente e naturale contrazione) simile a quella che procede dal vissuto alla storia, e viceversa. E se il Devito che orbita intorno all’abisso dell’adolescenza e dell’infanzia fa da innesco all’inizio del processo pittorico, quello delle “cose vecchie” e della grammatica storica prende poi per mano la costruzione di questa mitopoietica intimità.

«Sono molto nostalgico» mi dice Leonardo quando gli chiedo chi siano i suoi principali riferimenti nella storia dell’arte: quelli che quasi clandestinamente abitano la fibra stessa dei suoi quadri, dei suoi personaggi e dei suoi ambienti. Per il ‘900, gli spettri amici menzionati dall’artista sono Mario Sironi, Felice Casorati e Giorgio De Chirico: mi sembra così intuitivo e semplice rivedere ora, in quadri come Sogno Napoletano (2024), Assedio (2024) o Casa Nostalgia (2024), la ieraticità e la grana del primo, le campiture placide del secondo e le atmosfere immobili del terzo. Sono loro a dare la grammatica dei ricordi, così ingenui e metafisici, ancora vicini e lontani per chi può solo immaginare (ed è giusto così) il continuo di questa catena di simboli, oltre il quadro e oltre l’artista.

Andando ancora più indietro, Leonardo mi parla del suo amore verso un preciso periodo: il passaggio tra la fine del Trecento e il primo Quattrocento italiano. È un momento in cui la riscoperta del classico, dei volumi e della terrestrità umana inizia a fare capolino — negli affreschi padovani di Giotto, ad esempio — ma che allo stesso tempo non dispone ancora di quella sensibilità scientifica, volumetrica, che poco dopo guiderà le mani dello Squarcione, di Mantegna o di Piero della Francesca. Prima di loro (e anche in contemporanea) ci sono le nature magiche di Pisanello e Gentile da Fabriano, naturalistiche ma espressamente non scientifiche, che procedono come a buttarsi e a godere del mondo intorno. «Soluzioni ingenue e coltissime» mi dice Devito, in cui spiritualità e umanità sono un tutt’uno senza nessuna retorica ascetica e pedante. C’è l’antico, e c’è l’infinità godereccia della natura, e del momento stesso del dipingere. Roger Fry, nella sua breve monografia su Giovanni Bellini pubblicata nel 1899, scriveva a proposito del padre Jacopo: «come mostrano i suoi schizzi, sembra sopraffatto [N.d.A.] dal piacere per le nuove possibilità del disegno rivelate dall’arte di Pisanello. Disegna ogni possibile oggetto, banale o sublime che sia, provando sempre la stessa gioia per il puro e semplice potere di raffigurare; e assembra oggetti diversi, non senza una certa violenza verso il loro significato naturale, in composizioni in cui la pretesa di religiosità è poco più che formale»[2].

Azzardando un’ipotesi insieme storica ed emotiva, provo a pensare questi pittori come gli adolescenti del primo rinascimento: ragazzi che guardano indietro e nel frattempo dipingono la loro vita, come Devito, che racchiude il tutto cosi: «Pensa a quanto fu bello quando le Madonne furono raffigurate non più con il fondo oro, ma con il paesaggio tutto intorno. Era come se l’artista dicesse: “dipingo Maria in un posto che per me è bello, e mi piace». Ecco di nuovo le polarità (che sono sempre la stessa, ripetuta ancora e ancora) tra adolescenza e vecchiaia, memoria e storia, ingenuità e sforzo, quotidianità e fantasia.

E poi gli animali, ancora: gatti, cani e uccelli che sembrano a volte tratti da una polaroid di famiglia, a volte strappati da qualche bestiario fantastico antico, come in Nina (2024), Città degli uccellini (2024), o Sogno di uno straniero (2022). I loro corpi sono sospesi, silenti, quasi indifferenti a qualsiasi occhio del mondo di quaggiù, ed è in questa sospensione, che coinvolge ogni millimetro del quadro e in cui pittoricamente convivono il gioco e la tragicità del tempo, che risiede la dimensione mitica delle immagini dell’artista: la loro libertà quasi imposta a Devito stesso che asseconda e partecipa delle rotture e delle amplificazioni della sua stessa storia. Immagini mitiche e piccole rivolte (contro la linearità della vita adulta e performativa) se si considera come proprio la rivolta, ancora una volta per Furio Jesi, coincida con l’espressione più genuina della temporalità mitica: «Ogni rivolta si può invece descrivere come una sospensione del tempo storico. […]L’istante della rivolta determina la fulminea autorganizzazione e oggettivazione di sé quale parte di una collettività. […]. Tutti sperimentano l’epifania [N.d.A.] dei medesimi simboli: lo spazio individuale di ciascuno, dominato dai propri simboli personali, il rifugio dal tempo storico che ciascuno ritrova nella propria simbologia e nella propria mitologia individuali, si ampliano e divengono lo spazio simbolico comune a un’intera collettività, il rifugio dal tempo storico in cui un’intera collettività trova scampo»[3].

Nell’immaginario di Devito tutto quindi sembra a riposo. Non fermo, ma come estremamente rallentato, colto in un movimento che noi non riusciamo a scorgere e che comunque c’è. Davanti ai suoi quadri si percepisce anche una certa indifferenza delle stesse immagini, come se i personaggi, gli oggetti e tutto il resto abitassero naturalmente un mondo vicino e inaccessibile, guardandoci solo di sbieco, senza neanche troppo interesse. Ricordano lo spazio onirico e terribilmente concreto de Il castello, uno degli ultimi romanzi di Kafka pubblicato postumo nel 1926, in cui il signor K. è, e rimarrà sempre, un forestiero, allo stesso tempo invitato e respinto dagli abitanti del villaggio. Il castello, che è la verità, la comprensione totale di un’esistenza, è inaccessibile e lo sarà sempre, mentre ci chiama qualche volta ma solamente con dei fruscii — l’unico senso del mistero che possiamo ricevere. Devito pittura questa inaccessibilità — anche per se stesso — con ironia, con tranquillità.

Forse davanti ai quadri di Devito ci riavviciniamo alle nostre mitologie. Rimaniamo fermi nel gioco tragico delle ingenuità e degli sforzi di capire realizzando poi che, da capire, non c’è nulla, ma soltanto da guardare, giocare con i fantasmi che sempre (da sempre) ci invitano da sotto il letto, o da dietro la parete, della nostra cameretta.

[1] F. Jesi, Il tempo della festa, a cura di Andrea Cavalletti, nottetempo, Milano, 2013, p. 23.

[2] R. Fry, Giovanni Bellini (1899), Abscondita, Milano, 2007, p. 22.

[3] F. Jesi, Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud (1973), ne Il tempo della festa, a cura di Andrea Cavalletti, nottetempo, Milano, 2013, p. 44.

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Piermario De Angelis