L’approccio alle cose – alle opere, ai corpi – raramente segue una traiettoria lineare. Scrivere di performance significa deviare, spostarsi su un piano laterale per avvicinarsi davvero, senza restare intrappolati in un linguaggio consumato, fatto di parole – chiave che funzionano ma non aprono più spiragli. Serve una via tangenziale. Questo è particolarmente vero di fronte a Étude 6. On Crowd (2025) di Gisèle Vienne, una sorta di negativo del precedente Crowd (2017), focalizzato questa volta sull’esperienza di due personaggi isolati dalla folla e dalla dimensione collettiva della festa. In Étude 6 non tutto è chiaro perché non vuole esserlo. L’immaginario che crea si disintegra continuamente, generando uno stato rituale che risucchia l’esperienza e lo spettatore stesso. Sospesi in uno stato post-festivo, tra tristezza e convalescenza, mentre i movimenti dei performer incidono una memoria fisica nei corpi del pubblico, ogni gesto è carico di umanità.
C’è una cosa che Vienne riesce a fare molto bene, soprattutto in questo lavoro – presentato a Triennale Milano durante l’ultima edizione di FOG Festival – ed è far dimenticare allo spettatore di essere tale, interrompendo i cliché che si creano negli spazi museali. L’idea di pubblico durante una performance è spesso quella di corpi in piedi – un po’ imbarazzati – con il cellulare in mano. Un’immagine che veniva richiesta esplicitamente in Faust (2017) di Anne Imhof – nel Padiglione Tedesco alla Biennale di Venezia – ma che, più in generale, appartiene alla performance museale da white cube; dove gli sguardi tra il pubblico, sempre illuminato, diventano merce di scambio d’ansia o cenni d’autocompiacimento per aver (forse) colto il senso del lavoro davanti a sé. In questa continua oscillazione ai limiti del reale, dove iniziano e finiscono i nostri corpi?
Per opporsi alla neutralità luminosa dello spazio museale, Vienne ci immerge in un buio profondo, quasi desertico. Non cerca i volti del pubblico, non li illumina: li dimentica. In questo gesto radicale, si rompe la coreografia sociale tipica degli eventi culturali milanesi, fatta di posture attente e sguardi controllati. L’oscurità di Etude 6 è più interiore che esteriore, senza coordinate, senza inizio e fine, senza punti di riferimento. Un’infelicità estesa, dove l’immobilità del movimento, la sua alienazione temporale, rappresenta l’opposizione binaria tra felicità e infelicità, verso una totale perdita di significati. I due corpi negoziano costantemente il tempo e lo spazio dell’Altro, generando la possibilità di un’azione successiva: è questa la dimensione più vicina a ciò che si intende per potere trasformativo della performance. Dove ciascuno spazio produce l’Altro.
In questo senso, la scena è un deserto. Non come vuoto, ma come luogo dove ogni direzione è possibile e nessuna è garantita. Per Derrida, il deserto è lo spazio dell’impossibile, un luogo che disorienta, sì, ma che lascia anche emergere qualcosa di non ancora visibile; dove ospitare l’Altro significa rinunciare a sapere cosa accadrà, e quindi abbandonarsi all’esperienza, azzerando tutto a costo di smarrirsi1. Così anche l’oscurità scenica non è buio, ma possibilità di percorrere altre strade e realtà che al momento non sappiamo vedere. Conoscere il deserto – così come l’oscurità – vuol dire fare abitudine di un luogo senza tracce, nel quale si cammina ipotizzando che ci sia un’uscita, ma senza pretenderla. L’identità e il corpo, per seguire Derrida e poi Preciado, trattano di spettri, ovvero fantasmi che si aggirano nella società con il pericolo che questa continui a produrre una materialità molto densa2. È così che il duo di performer autoalimenta molteplici spettri, decostruendo sempre il movimento in un personale spazio – tempo, nel quale i due corpi vivi si sorreggono da soli, toccandosi raramente, sempre nell’intento di riassemblare la propria vaga interezza, a costo di negare vulnerabilità, dipendenza, e desideri propri dell’essere esposto. Una dipendenza senza ritorno, che si muove in più direzioni contemporaneamente, avanti e indietro, piano e veloce. Si muovono democraticamente per la maggior parte del lavoro, con il bisogno costante di essere costantemente visti dall’Altro. È in questo stato di prova infinita – in questa apertura permanente – che il gesto si politicizza. Ogni passo, ogni esitazione, è un atto che rifiuta l’idea di identità chiusa e di relazione risolta. “Il corpo espone al fuori il dentro che non cessa mai di fuggire più lontano, più al fondo dell’abisso che esso stesso è. Ecco la verità del mondo: il mondo è l’esplosione e l’espansione di un’esposizione”3. Il potere del linguaggio performativo è in questa rinascita di immagini sul mondo che possono venire da quel deserto molto lontano, dal più isolato sguardo che cerca sé stesso, sapendosi guardato da un pubblico – che sempre smarrito, si trattiene in questa intimità condivisa.
“Quando la danza entra nel museo, finisce quasi inevitabilmente per perdere la sua carica di critica istituzionale, perché la sua istituzione di riferimento è altrove – il teatro. L’interesse curatoriale per la danza e le arti performative ha portato a una sorta di addomesticamento della performance nelle arti visive, che in gran parte ha abbandonato il suo impegno storico nella trasgressione e nella protesta”4.
Lo spazio della Triennale, storicamente segnato da tensioni politiche – basti pensare all’occupazione della XIV edizione nel19685 – viene qui riattivato come luogo di sospensione e di coabitazione vulnerabile. Il festival, nella sua capacità di produrre tempi improduttivi, attese e zone di transito, si conferma un «complicatore culturale» nel senso proposto da André Lepecki: un dispositivo che genera alleanze e frizioni impreviste, invece di semplici narrazioni lineari6. La Triennale torna a essere abitata e non solo attraversata, come avviene normalmente nelle mostre, dove il pubblico si disperde in esperienze individuali. Il tempo di resistenza richiesto da Vienne attiva una decelerazione, una prossimità fisica, un senso forte del luogo, concentrandosi sull’esperienza emotiva – più che reale – del tempo. Si tratta di una questione di spazio senza ‘limen’, quella soglia che caratterizzando un territorio, è in grado di contenerlo. Nel continuo via vai tra una performance e l’altra – negli atrii, nei corridoi, nei bagni pubblici – si illuminano gli spazi di sospensione tra eventi. È lì che la performatività si rigenera. I tempi improduttivi, infatti, sono da sempre parte del teatro: conversazioni, sospensioni, attese. Mentre oggi è più silenzioso, concentrato. Ma resistono spiragli di mormorio: spazi di negoziazione informale, come i bagni pubblici7 – luoghi in cui si alternano stanchezza ed esuberanza, in cui il disagio si fa esperienza comune. Proprio in questi vuoti potrebbe rivelarsi la potenzialità di uno stato oltre l’esaurimento: uno stato performativo che oscilla tra la stanchezza e l’attività, come in Ètude 6. Il negativo è quindi un metodo di rottura capace di sovvertire le esigenze predefinite, un modo di agire senza mandato contro le tempistiche e gli spazi luminosi imposti8.
Quindi cosa rimane?
Rimane la traccia intangibile dei corpi che fanno della loro propria notte bagliori passeggeri, passanti incessanti offerti agli sguardi delle stelle e dei buchi neri. Corpi in relazione, sempre guardati, dal cielo. Da cui si intravede – forse – una possibilità di riattivazione politica ed emotiva: un modo diverso di stare insieme, senza garanzie, tra zone desertiche e infelicità estese.