Il Mestiere non esiste, è quello che ti improvvisi. Una conversazione con Mimmo Paladino

5 Maggio 2025

Introduzione di Cecilia Monteleone

L’opera di Mimmo Paladino è un varco, un’increspatura, un gesto che affiora come un frammento antico, senza mai offrirsi a un’interpretazione definitiva. Non cerca compiutezze, vive nell’attimo in cui il pensiero diventa materia e, subito dopo, si sottrae. Pittore, scultore, incisore, fotografo, regista, Paladino ha sempre sfidato i confini delle discipline per costruire una grammatica personale. Tele, lastre dorate, carta, olio o matite, i materiali sono per lui territori provvisori, dove il sacro e il quotidiano, la memoria e l’invenzione si intrecciano senza mai confondersi.

La mostra nella sede londinese di MASSIMODECARLO rinnova la vitalità di una pratica che abita l’imprevisto e si nutre della metamorfosi. Le mani che emergono dalla tela monocroma di KV622 (2022), la figura femminile catturata in una morsa di metallo, i busti ieratici dei Sei Santi di Venti (2018-2019) – ogni immagine sembra emergere da una lenta sedimentazione, interrotta da lampi improvvisi. L’oro che riverbera nei lavori recenti apre a una dimensione arcaica e favolistica, mentre il rigore geometrico richiama e insieme tradisce la memoria rinascimentale, restituendola al presente.

Nell’estratto della conversazione tra Giancarlo Politi, Helena Kontova e Giacinto Di Pietrantonio pubblicata nel 1990 da Giancarlo Politi Editore e ripubblicata oggi da Flash Art Italia, Paladino racconta come il suo lavoro non segua metodi prestabiliti. Ogni opera si compie in uno stato di tensione continua, dove il tempo lento della costruzione si alterna all’energia esplosiva dell’intuizione. Il «piacere perverso del fare», come lo definisce, è inseparabile dalla sofferenza di ogni inizio. «Il mestiere non esiste», dice Paladino. Esiste piuttosto il coraggio di perdere l’equilibrio, e di scoprire – nell’urto, nell’incidente, nella deviazione – una forma nuova.

A Londra, dove la sua opera è stata accolta con entusiasmo fin dagli anni Ottanta, Paladino ritorna con la stessa audacia lirica che lo ha sempre contraddistinto. Dopo quasi cinquant’anni di ricerca, conferma che il vero compito dell’arte – forse il solo – è restare fedeli al dubbio, abitare l’instabilità, accettare che ogni forma sia solo una traccia in divenire. Ed è proprio in questa fragile resistenza al definitivo che la sua voce, ancora oggi, continua a sorprenderci.

“Il Metodo”. Estratto dalla conversazione tra Mimmo Paladino, Giancarlo Politi, Helena Kontova e Giacinto Di Pietrantonio in Mimmo Paladino pubblicato da Giancarlo Politi Editore nel 1990.

Giancarlo Politi: Hai spesso crisi, ripensamenti, preoccupazioni, oppure lavori sempre in maniera felice, come sembra?
Mimmo Paladino: No, assolutamente, anzi è vero il contrario, vi è una sofferenza dovuta a una incapacità costante del dover affrontare qualcosa da portare a termine. Non è una cosa piacevole, e il piacere di fare è un piacere perverso (ride), perché nasce da una strana sofferenza. Infatti, invidio artisti come Mirò che sembra essere stato felice di aver fatto quello che ha fatto.

Giacinto Di Pietrantonio: Lavori ad un’opera per volta o a più contemporaneamente?
M.P.: Mi piace essere circondato da tanti pezzi a cui lavorare contemporaneamente. Due mesi fa in studio non avevo niente, poi ho iniziato e pian piano tendo a farmi circondare dai lavori.

G.D.P.: Mentre ti fai assediare dal lavoro sposti l’attenzione su diversi materiali?
M.P.: Si, questo è importante, perché stranamente una cosa può stimolare un’altra ed è sempre come una sorpresa, non sai cosa può succedere. Poi ci sono delle cose che nascono in un modo molto preciso, molto progettuale, definite, e se la cosa riesce rimangono come sono, altrimenti vengono gettate via.

G.D.P.: Questo tuo modo di lavorare è forse dovuto al fatto che cerchi di costruire una nicchia ambientale per e con il tuo lavoro?
M.P.: Si, diciamo che tento di circondarmi in modo da non avere nessuna via di scampo… quindi devi per forza dirigerti sulle cose che ti circondano prima che siano ultimate. Poi, non so, dico che un’opera è finita rispetto ad un’altra perché non vedo possibilità di poter aggiungere altro, ma spesso finisco i lavori mentre stanno uscendo dalla porta. Non c’è un metodo e questo è il piacere di non dover ogni volta ripetere la stessa liturgia.

G.P.: Sei legato alle tue opere? Ami possederle?
M.P.: No, non credo di esserlo tanto da diventare feticista, se rivedo un mio lavoro dopo qualche anno mi fa piacere vedere se ha resistito al tempo.

Helena Kontova: L’esecuzione delle opere è veloce o lenta?
M.P.: Dipende da quello strano momento, dall’intuizione, dall’energia del momento. Infatti i lavori pieni di figure hanno questa densità, perché sono stati progettati come momenti di grande lentezza costruttiva. In quel caso decidevo di procedere molto lentamente e alla fine veniva fuori un lavoro che aveva immagini e segni figure come una trascrizione di cose che mi arrivavano continuamente e che andavo a dipingere. Questo era il senso non tanto del lavoro finito, ma del processo. Era quasi paragonabile al bianco su bianco di Ryman (ride): come atteggiamento emotivo, perché certe affezioni ritornano. È come quando andavo a scuola, dove c’era un mio compagno che era molto bravo nel disegnare figure ed oggetti nella loro precisione realistica, lui mostrava una sua attitudine.

G.D.P.: Spesso il saper dipingere, il virtuosismo può diventare un handicap creativo.
M.P.: Si, diciamo che la mia bravura è poter manipolare delle cose, cercando di ricavarne altre, manipolare nel senso new dada americano di Rauschenberg. La bravura di un pittore o disegnatore sta nel saper usare la capacità di lettura del mondo in maniera molto oggettiva, nel poter trasporre delle cose in maniera molto precisa.

G.D.P.: Quindi questo dichiarare ascendenze americane rifiuta l’idea postmoderna del genius loci?
M.P.: Non ho mai accettato quest’idea.

G.P.: Riesci a lavorare contemporaneamente a quadri e disegni o sono due momenti distinti?
M.P.: No, il disegno ha la necessità di avere circostanze favorevoli. Ho provato a volte a disegnare in viaggio ma non ci sono riuscito, anche qui a casa ho girato molto a lungo prima di trovare l’angolo giusto per disegnare. In fondo di angoli ce ne sono tanti, ma il vero angolo, il tavolo giusto, è difficile da trovare. È come il gatto che gira, finchè non trova il suo angolo per accucciarsi… e lì puoi produrre una quantità di materiale segnico che a mio avviso non va oltre il piccolo formato. Non riesco a disegnare nemmeno quando sono impegnato in vaste battaglie pittoriche. Infatti la maggior parte dei disegni è stata prodotta soprattutto quando non possedevo uno spazio ampio per fare un lavoro grande. A Milano riesco a disegnare molto bene, forse perché chiudersi in un guscio dove tutto poi fuori è immobile mi permette di concentrarmi maggiormente. Tutto sommato qui a Paduli non c’è grande concentrazione, ci sono molte distrazioni, luci, cielo, natura, sole. In una città come Milano, invece, dove fuori tutto è mobile nella sua uniformità è come se tutto fosse immobile.

G.P.: Ma per disegno cosa intendi?
M.P.: Qualcosa che non vada oltre il piccolo foglio, che non implichi materiali eccessivi. Quindi il segno della matita, la concentrazione estrema, il foglio bianco, la tua presenza a partire da un punto per seguire linee come se ci fossero già.

G.P.: Hai mai disegnato su fogli grandi?
M.P.: Certo, ma credo che abbia lo stesso livello di necessità, di forza energetica, d’impegno di un quadro, di una scultura, solo che li riduci lasciando solo il segno. È un adoperare più o meno energia, energia minima, estremamente ridotta, che ti permette di creare un mondo pieno di cose, tutto concentrato. Comunque il disegno non è mai un progetto, né schizzo, né appunto.

G.P.: Ma quando lavori sei sempre soggetto a questi tic di doverti creare uno spazio, di dover segnare con certi materiali?
M.P.: Mah, la durezza o meno di una matita può influenzare il tuo lavoro. Voglio dire che se tu usi una matita dura il disegno sarà incisivo, spigoloso, mentre una matita morbida ti dà un risultato di grande labilità. Questo ti dà il senso di come due punte di matita possano contenere un mondo incredibile.

G.P.: Quando dipingi ti poni il problema della qualità dei colori che usi?
45M.P.: Non mi interessa. Quando faccio un quadro non penso nè alla qualità del colore, né alla possibilità di durata della materia: è veramente un fatto di energia.

G.P.: Ma vedo che adoperi i Mussini, che sono colori molto sofisticati, perché?
M.P.: Non sempre. Infatti, le cose migliori sono sempre state fatte con robaccia. Ricordo che a Milano un giorno aprii la porta che dava sul cortile e vidi delle vecchie travi. Fu un attimo, le portai dentro, costruii il supporto e diedi il colore: il quadro era finito. Fu una questione di due ore.

G.P.: Come fai a decidere quando un quadro è finito?
M.P.: Un po’ è la sorte, oppure il fatto che ti poni un limite rispetto ad una scadenza che può essere una mostra. Poi ci sono dei quadri lentissimi, perché non riesci a vedere chiaro il problema, in quanto lo sottovaluti e lo vuoi dimenticare. Allora i quadri stanno lì e dormono, sperando che un giorno venga fuori la voglia di finirli. A me non piace affrontare direttamente il problema, ma aggirarlo e ogni tanto aggredirlo.

G.D.P.: Il tuo lavoro risente del luogo dove viene prodotto?
M.P.: Potrebbe risentire di facilità o di difficoltà. In realtà quando lavoro qui è molto più semplice che altrove, perché altrove, dove c’è una difficolta maggiore, il lavoro si modifica. Si modifica per materiale, per dimensione, per circostanze indipendenti dalla mia volontà.

G.P.: Il mestiere ti aiuta molto?
M.P.: Il mestiere non esiste, è quello che ti improvvisi, perché ogni giorno è una cosa nuova di cui non hai esperienza, puoi avere esperienze simili, ma non come quella. Allora, se mi chiedi di fare un disegno, è certo che ho un mestiere, ma se desidero ricercare qualcosa che abbia a che fare con una certa luce, una certa materia, in questo caso il mestiere non c’entra.

G.P.: Non esiste un mestiere che ti permetta di raggiungere in qualunque momento lo desideri un risultato accettabile?
M.P.: Si, ma perché hai una precisa conoscenza e questo ti permette di fare un quadro che hai già fatto, ma non ti da la tensione, la forza autonoma della prima volta.

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