Nella brezza passeggera che muove le frange di una vecchia lampada da comodino; nel vociare indistinto dal quale ci si astrae per qualche secondo o nei ritagli di giornali conservati senza più uno scopo. In queste e in molte altre occasioni fugaci e struggenti, si annida la ricerca di Marina Xenofontos. In un’intercapedine sottile che racconta la vita che scorre costellata dalle sue ambizioni, spesso imposte e quasi sempre omologanti, l’artista si inserisce e scava nel profondo delle sicurezze e dei ricordi di chiunque osservi il suo lavoro con attenzione.
Marina Xenofontos, (1988, Cipro) vive e lavora ad Atene. Spaziando tra video e scultura, la sua ricerca sfiora la caducità della memoria, i ricordi, le ambizioni collettive, l’inevitabilità del fallimento e la marginalizzazione delle narrazioni personali rispetto al quadro sociale. “Eternal, Returns” è la sua prima mostra istituzionale in Italia, a cura di Giulia Pollicita presso la Fondazione Morra Greco a Napoli. Una mostra densa e al contempo distillata che accompagna il visitatore in punta di piedi nell’universo di sensibilità collettive e personali che Marina intesse.
Class memorial (2025) è la prima opera che accoglie il visitatore. Una scultura che nei materiali e nella forma rievoca una porta, un cancello, di quelli forse più comuni del sud Europa. L’alluminio anodizzato di cui è composta irradia di una luce fredda e industriale la stanza che la ospita, in netto contrasto con i sontuosi affreschi di Giacomo del Pò, che decorano le mura del palazzo. Ma l’attenzione viene squarciata dalle voci che provengono in maniera confusa dalla stanza accanto dove il film We Were Supposed to Have Fun (2011-in corso), accosta attimi di vita familiare a paesaggi solitari, momenti di produzione a momenti di quiete. Un archivio video che l’artista considera in continua espansione e nel quale il tempo si insegue e si stratifica.
La mostra prosegue nelle stanze della Fondazione con i lavori della serie Data Storage of a True Spectrum (2022) in cui frammenti scomposti di una tecnologia obsoleta come quella dei cd rom danno vita a delle piccole macchine cinetiche capaci di riflettere raggi di luce e di trasformarli in piccole cascate luminose che scorrono sul pavimento senza soluzione di continuità. La luce e i riflessi sono elementi fondamentali per leggere il lavoro di Marina Xenofontos, come d’altronde lo sono i modi inaspettati in cui questi si appoggiano su ogni superficie che l’artista concepisce.
Code of Construction (2024), è probabilmente il vero protagonista della mostra. Un sistema modulare di mobili in legno ispirato all’arredamento delle camere da letto cipriote che invade gli spazi della Fondazione, infrangendone le regole architettoniche. Le superfici lucide del grande mobile che attraversa la stanza riflettono di volta in volta ciò che lo circonda, diventando, in prospettiva, il supporto ideale per un televisore acceso che dal cortile trasmette il telegiornale.
Ho immaginato tante volte di scrivere un racconto ambientato in una calda serata d’estate in cui le voci e le sigle provenienti dai televisori di tutte le famiglie del vicinato si fondevano in un unico coro scoordinato e confuso che raccontava il mio paese meglio di qualsiasi testo sociologico sull’argomento. Marina Xenofontos mi ha ricordato di quanto sarebbe stato bello scriverlo quel racconto, ma anche di quanto complicato sarebbe stato tradurre in parole quel flusso scomposto di voci e lampi di colore bluastro che, ogni sera, inondava il cortile interno del mio palazzo.
Con un garbo d’altri tempi, le opere di Marina Xenofontos riescono a catturare lo scorrere di ombre, le luci e i passaggi fugaci che raccontano le nostre vite molto più di quanto possiamo raccontare noi a parole.