Martina Simeti presenta la prima mostra di Paolo Chiasera in galleria con un nuovo corpus di lavori in cui la figura umana si manifesta attraverso assenze e tracce, in un equilibrio tra intimità e trascendenza. All’ingresso, tre grandi tele in terra lavica armena raffigurano una felpa e un paio di mocassini, indumenti personali colti in diverse ore del giorno. Questi oggetti di vita quotidiana, apparentemente appena smessi e abbandonati, diventano reliquie silenziose, evocando la presenza umana. La felpa assume una anatomia nascosta, mentre la posa delle calzature rimanda alle forme archetipiche delle crocifissioni. Lo spazio si configura come luogo spirituale, dove l’offerta assume forme inaspettate: uno strano porta-uova colmo è trasformato in simbolo rituale. Il pollaio si sovrappone al glory hole —due immagini ricorrenti nell’ultima produzione di Chiasera- aprendo una riflessione sui confini tra protezione ed esposizione. Un occhio, unico elemento visibile oltre il velluto rosso -dipinto con il perduto cinabro del Monte Amiata-, osserva attraverso un foro. La tenda si trasforma così in un velo di Maya, una soglia tra realtà e illusione, tra rivelazione e occultamento.
L’opera Finestra (2025) lascia intravedere la natura, spazio che separa e al contempo connette. Come in un acquario, chi guarda è insieme osservatore e osservato, mentre la natura sembra premere sulla superficie vetrata, proprio come mani appoggiate per scrutare oltre il limite dell’acqua. La soglia diventa così un filtro ambiguo, simbolo di trasparenza e distorsione, di purificazione e barriera. Accanto ma in qualche modo in connessione, Shakti (2025) sembra comprimere in un atto di concentrazione le energie della sala. Questo gioco di rivelazione e occultamento torna nelle tele che chiudono il percorso espositivo, dove dettagli e memorie della storia dell’arte si rifrangono su policarbonati riflettenti. L’immagine si scompone e si ricompone, costringendo lo sguardo a inseguire frammenti che si moltiplicano e si deformano. Le immagini filtrano la storia e la biografia personale, intrecciando tracce di memoria individuale e collettiva.
Nel lavoro di Chiasera, il corpo non scompare mai del tutto. Sopravvive nei segni che lascia, nelle tensioni tra materia e mito, nella semplicità di una felpa e un paio di scarpe abbandonate. Il visibile si mescola all’invisibile e, in questa intersezione, si aprono domande su ciò che resta, su ciò che ci definisce e su ciò che, inevitabilmente, si dissolve.