Cosa significa oggi vedere, essere visti o scegliere di non mostrarsi? “ROAD RUNNER”, la personale di Cemile Sahin curata da Chiara Nuzzi nella project room di ICA Milano, si articola proprio attorno a questo interrogativo – disinnescando le promesse della rappresentazione e aprendo crepe nei regimi visivi dominanti. In un paesaggio sospeso tra necropolitica e cultura pop, un video in loop ci restituisce occhi imperscrutabili che ci fissano con sguardo recriminante come se volessero essere visti, in cerca di intimità e comprensione, e allo stesso tempo distogliere lo sguardo; in un continuo slittamento tra identità, sorveglianza e sparizione.
Ambientato in un futuro non troppo lontano in cui droni killer pattugliano il cielo alla ricerca di corpi dissidenti, “ROAD RUNNER” esplora la fantascienza come modalità narrativa, mischiando riprese militari, montaggi TikTok, televendite e gameplay con footages originali. La protagonista Berîtan, in onore della guerrigliera curda Gülnaz Karataş, deve salvare la sorella, ma è intrappolata in una narrativa predeterminata. Ha tre tentativi per salire di livello e trovarla, eppure fallisce immancabilmente. Berîtan – con le sue unghie rosa shocking, la postura da supereroina e le movenze da avatar di Super Mario remixato con Lara Croft – sfida la narrativa lineare e maschile dell’eroe vincente e la presunta neutralità dello sguardo documentaristico. Voci e suoni emergono come fantasmi da un paesaggio che è insieme fisico e mentale. Il desiderio è infranto, intensamente politico perché non risolvibile.
Le immagini che Sahin presenta, – sospese tra paesaggio onirico e videogioco splatter – siano esse filmate o digitalmente manipolate, sembrano oscillare tra realtà e finzione, creando un effetto di straniamento che mette in discussione la veridicità della percezione. L’artista, infatti, impiega una grammatica memetica, fatta di ripetizioni visive, sovrapposizioni di scritte e campiture monocrome, che ricordano l’accelerazionismo1 e l’estetica affettiva2 delle culture digitali.
È come se ogni elemento della mostra – dal suono intermittente di una ballata curda ai manifesti meme sparsi nello spazio – contribuisse a creare un’esperienza di “hauntology visiva”, un gioco di specchi tra ciò che appare e ciò che è stato. In questo senso, il passato non ritorna come semplice memoria storica, ma come una presenza spettrale che continua ad agire nel presente3. E se l’estetica può sembrare giocosa, iperpop e satirica, ogni riferimento ironico è al contempo oscuro. Dal linguaggio advertising che prende in giro se stesso (“Are you ready to upgrade your grief?”) ai tutorials su YouTube che insegnano a truccarsi per eludere i software di riconoscimento facciale, il sovraccarico sensoriale del video evoca una riflessione sulla mercificazione ipertrofica delle nostre vite, sulla militarizzazione delle tecnologie e sull’estetica con cui vengono narrate le informazioni.
In questo senso, “ROAD RUNNER” si iscrive in una genealogia critica dell’estetizzazione della violenza che va da In Defense of the Poor Image (2009) di Hito Steyerl fino al Glitch Feminism (2020) di Legacy Russell e L’epoca della Violenza Cute (2025)4 di Noura Tafeche. Sahin costruisce uno spazio audiovisivo dove il corpo, già segnato da una storia diasporica e coloniale, si dissolve per riemergere sottoforma di glitch: la figura si decompone, il suono disturba, il montaggio frattura ogni possibile linearità narrativa.
Il riferimento a Road Runner – celebre cartone statunitense dove l’uccello sfugge continuamente al nemico – è un’icona nostalgica e disillusa: nessun luogo da raggiungere, nessuna liberazione finale. Solo movimento perenne, fuga come stato. Se nel romanzo di Sahin All Dogs Die (2024) la realtà è vissuta come una prigione in cui le relazioni si consumano in un continuo scambio di violenza simbolica, in “ROAD RUNNER” questo meccanismo si amplia. La figura del road runner diventa simbolo di un’esistenza che corre su un filo sottilissimo, tra il desiderio di liberazione e l’impossibilità di sfuggire a un destino predeterminato.
E’ proprio nel fallimento che si apre un varco. Una possibile libertà non nella conquista, ma nell’opacità e nella disidentificazione; un rifiuto di essere leggibili secondo i parametri coloniali e patriarcali del visibile. Il glitch, in quanto tale, non è solo un errore. È un modo di abitare il mondo. Di esistere nonostante tutto.