“Graffiti” Museion /Bolzano di

di 23 Maggio 2025

Splende il sole a Bolzano, e le alte vetrate del Museion offrono uno scorcio delle Alpi. Leonie Radine, co-curatrice della mostra “Graffiti”, è seduta in cerchio con una scolaresca di liceali. In attesa che si liberi, mi aggiro per la sala. Lo spazio funziona come una sorta di diorama urbano, in cui opere dai media e provenienze diverse compongono un frammentario ritratto della metropoli contemporanea – un bel contrasto con l’idilliaco paesaggio alpino che incornicia la curatrice e i suoi interlocutori. Una simile tensione tra sfondo e figura attraversa l’intera “Graffiti”: il tentativo di portare la città dentro il museo si confronta costantemente con ciò che rimane fuori.

Raggiunto da Radine, ci dirigiamo verso l’inizio del percorso. La mostra si apre con un video di Ben Solomon, Dirty Laundry (False & Blake) (2023), in cui figure incappucciate pitturano le pareti di Times Square nella notte. Si tratta della crew di Ned Vena, co-curatore della mostra, artista e graffitaro newyorkese. Radine rintraccia la genesi di “Graffiti” nell’amicizia e nella collaborazione con Vena: la sua figura di creativo in bilico tra due realtà – strada e galleria – ha fatto da bussola lungo l’intero progetto. L’obiettivo dei curatori è di complicare il confine tra questi due mondi, portando nell’istituzione museale nomi e immagini che normalmente non ci metterebbero piede. In tal senso, la mostra non offre una mappatura completa della pratica dei graffiti – lavoro d’altronde impossibile, data la natura spontanea ed effimera del fenomeno – ma propone piuttosto una storia alternativa e parziale, costruita attorno a punti di contatto, invasioni di campo e contaminazioni con l’arte contemporanea.

Le prime tre sezioni di “Graffiti” si sviluppano secondo un chiaro ordine cronologico, trovando nel 1951, anno del brevetto della bomboletta spray, una simbolica data di partenza. La prima sala, “Spray Painting”, ripercorre le iniziali sperimentazioni pittoriche della bomboletta, con nomi come Hedda Sterne in America e Carol Rama in Europa. L’area successiva, “Painting graffiti”, si concentra sulla New York degli anni Ottanta, dove lo spray scende in strada, facendosi voce delle locali comunità nere e ispaniche. I dipinti presenti – tra gli autori figurano Rammelzee, Futura 2000, Quik, protagonisti della scena dei writer di allora – sono graffiti incorniciati, commissionati da lungimiranti collezionisti privati. Il testo che accompagna la mostra vede nella transizione da muro a tela degli street-artists un primo passo verso la loro legittimazione istituzionale. Lettura comprensibile, ma una domanda sorge spontanea: quale prezzo pagano i lavori per la loro inclusione nel ‘canone ufficiale’?

Nel tentativo di portare quest’arte dentro il museo, il rischio è smussarne l’intensità originaria. Condivido i miei dubbi con Radine, che riconosce la complessità della questione. Siamo nella terza sezione, “Contemporaries”, che individua nel nuovo millennio un momento di sintesi del processo delineato nelle prime due aree. Tra una tela di Heike-Karin Föll (total femme, 2016) e una scritta di Soil Thornton (Labor Cont(r)act (assisted), 2025), la curatrice mi indica un gruppo di dipinti realizzati dai membri della scena di graffitari newyorkesi da cui proviene Ned Vena. Radine insiste che la carica politica e dirompente dei pezzi sopravviva nella loro storia e origine materiale. Mentre condivide con me alcuni aneddoti – la formazione della Irak crew, vita e miracoli del writer giapponese WANTO – le tele prendono vita, aprendo un piccolo squarcio su un mondo a me lontano. Eppure, senza la mediazione di Radine, il contesto originale dei lavori rischia di passare in secondo piano, a favore dell’attenzione formale e tecnica nei confronti dello spray che attraversa la mostra.

Arrivati all’ultimo piano, intitolato “Making cities”, ci ritroviamo nella sala del nostro primo incontro, nonché il punto finale del percorso. Qui lo spray viene messo da parte, e la narrazione cronologica, lineare e prevalentemente pittorica che aveva dominato il resto della mostra erompe in una moltitudine di forme e storie diverse. Il trenino in miniatura di Josephine Pryde taglia allegramente in due lo spazio (The New Media Express, 2014); le cartoline ingiallite di Colette Lumiere catturano frammenti di vita quotidiana (Untitled (Postcards of the Story of My Life), 1974); i bidoni della spazzatura di Klara Lidén (Untitled (Trashcan), 2013) siedono pensosi in un angolo. La città produce e si nutre di caos, narrazioni discordanti, identità contradditorie: è quando “Graffiti” si abbandona a questa tensione che la mostra trova la sua voce più sincera.

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Simone Molinari