“Il rosso non è un colore, è un’affermazione” scriveva Derek Jarman. A Roma, il rosso diventa dispositivo critico: “Orizzonti | Rosso” è il titolo della mostra che inaugura PM23, il nuovo spazio della Fondazione Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti. Ma è anche la soglia emotiva attraverso cui si entra in un luogo che ha più a che fare con l’esperienza che con l’esposizione.
PM23 non è un museo. Né una casa della moda. È un luogo ibrido, nato dove un tempo risiedeva la Propaganda Fide, a pochi passi da Trinità dei Monti. Un edificio che conserva tracce del sacro, e che ora accoglie un altro tipo di rito: quello della visione.
La mostra, curata da Pamela Golbin, Anna Coliva e Michele Colasuonno, si muove come un montaggio. Cinquanta abiti d’archivio Valentino – tutti rossi, dal 1959 al 2008 – si confrontano con una collezione di opere d’arte che vanno da Rothko a Richter, da Bacon a Bourgeois, da Fontana a Schifano, da Boetti a Vezzoli. L’effetto non è spettacolare, ma mentale. C’è un rigore sottile, quasi un pudore.
Il percorso espositivo non è didascalico. È costruito per tensioni: formali, emotive, temporali. Un ritratto di Valentino firmato Warhol incontra Fiesta, il primo abito rosso della maison. Un busto di Francesco Vezzoli chiude il percorso: lacrima rosso Valentino. Un gesto melodrammatico, quasi tragico, che restituisce al colore la sua densità psichica.
I manichini – calchi del volto di Natalia Vodianova – sembrano presenze sospese. Non celebrano, interrogano. La couture diventa così una forma di pensiero, più che un oggetto. È “memoria attiva”, dice Pamela Golbin, fashion curator della Fondazione, che accompagna nella lettura silenziosa di questo corpo a corpo fra arte e moda.
Il rosso qui non è superficie. È materia del tempo. È ferita e desiderio, potere e abbandono. È anche un’idea di accesso: la mostra è gratuita fino al 10 giugno. Non si tratta solo di inclusività. Si tratta di condivisione come forma estetica. PM23 si presenta come un laboratorio. Un luogo che non espone la bellezza, ma la mette in discussione. E in questo gesto, c’è forse la sua forma più radicale.