Comunemente il concetto di improvvisazione è associato a un atto performativo, e soprattutto, alla presenza fisica di un* performer nello spazio scenico. L’improvvisazione va in scena, lə spettatorə assistono. Varcata la soglia dello Shed di Pirelli HangarBicocca, lo spazio appare irregolare e frammentato come un arcipelago di minuscole isole indipendenti abitate da suoni ed elementi eterogenei. Metri di cavi si intrecciano sul pavimento grigio, suggerendo percorsi possibili e traiettorie aggrovigliate. Da dove iniziare, e come abitare questa cartografia sonora che muta e si espande a prescindere dal nostro attraversamento? Improvisation in 10 Days di Tarek Atoui (Beirut, 1980) ci pone di fronte a una scelta: esistere rapidamente nello spazio espositivo come spettatorə fugaci e distrattə, o abitarlo consapevolmente in modo paziente e ricettivo; in questo caso spetta a noi improvvisare.
La prima personale di Atoui in Italia si pone al confine tra mostra e azione performativa. Nel corso della sua carriera, Atoui ha esplorato le potenzialità del suono inizialmente in ambito performativo e successivamente nel contesto artistico ed espositivo, sviluppando una pratica collaborativa insieme ad artigiani, compositori e comunità differenti da tutto il mondo. Attraverso le sue opere, l’artista invita a riflettere sul valore educativo della musica e delle nuove tecnologie in relazione a temi tra cui espressione e identità. Nel microcosmo dell’artista, l’ascolto si fa linguaggio di apprendimento e il suono spazio di sperimentazione, relazione, e improvvisazione. Strutture in legno e bronzo, vasi e pietre diventano strumenti — organi (Organ Within, 2022), tamburi (The Rain, 2023-24) e strumenti a fiato — che popolano lo spazio come creature viventi. La luce naturale che filtra dalle ampie vetrate dello Shed non si limita a illuminare le forme atipiche di questo ecosistema sonoro, ma ne diventa parte integrante, materia viva e compositiva.
Nelle opere del ciclo Waters’ Witness (2020-23), il tintinnio insistente delle gocce d’acqua è un’azione tanto impercettibile quanto radicale, il cui eco si propaga nei vasi sotto forma di vibrazioni amplificate da microfoni subacquei. Procedendo senza indicazioni nel labirinto sonoro di Atoui, incontriamo grandi strutture cubiche trasparenti che spezzano l’architettura open space. Wind House #1 e #2 (2023-24) sono due ‘stanze del vento’ che invitano a fermarsi e ascoltare. Al loro interno, il suono ci raggiunge a intensità variabili modellate dal passaggio dell’aria attraverso la struttura in legno. Il nostro ascolto si separa dal soundscape dello Shed e accede a una dimensione sensoriale più intima, rarefatta e intensificata.
Improvvisando movimenti e ‘sintonizzazioni’ in fase allestitiva, Atoui ha dato vita a un’orchestra introversa, in grado di intonare una sinfonia al tempo stesso delicata e resiliente: un rumore bianco che sovrasta ogni suono umano e che, nella sua instancabile persistenza, genera una calma straniante. L’atmosfera richiama alla mente la nozione di eerie elaborata dal filosofo inglese Mark Fisher1, una condizione percettiva in cui si avverte l’assenza di qualcosa che dovrebbe esserci, oppure la presenza silenziosa di ciò che sfugge alla comprensione. In questa soglia fragile tra suono e silenzio, tra pieno e vuoto, l’ascolto si fa più profondo, meno razionale e più intuitivo.
In Improvisation in 10 Days, gli elementi naturali che compongono le opere assorbono, respingono o cancellano i suoni, restituendoli in forme inedite o eliminandone le tracce, proprio come fanno i nostri corpi. Lo spazio espositivo si configura così non come una superficie passiva da contemplare, ma come un organismo vivente e trasformativo, un terreno di possibilità in cui lə spettatorə diventano co-autorə dell’esperienza. La disposizione delle opere, estesa su tutta l’area dello Shed, testimonia un approccio curatoriale e artistico che sovverte la tradizionale dicotomia tra osservatore e osservato, proponendo invece una prospettiva fluida e partecipativa. Un’impostazione che richiama quanto osservato da Claire Bishop2, secondo cui molte pratiche installative contemporanee mirano a dissolvere i confini tra spettatore e opera, attivando un’esperienza immersiva e relazionale. Muovendosi tra le installazioni, si attiva uno sguardo duplice: osserviamo lə altrə visitatorə nei loro gesti e nelle interazioni con le opere, come se fossero anch’essə parte integrante dell’esposizione. I nostri movimenti mettono in scena una performance sempre diversa, di cui siamo al tempo stesso esecutorə e spettatorə. Anche noi siamo parte integrante dello spazio, una creatura tra le altre. E, come tutte, improvvisiamo.