Protesi sentimentali. “Rebecca Horn – Cutting Through The Past” Castello di Rivoli / Rivoli di

di 23 Giugno 2025

In Feather Finger – uno dei video presenti in Performances I (1970-72), esposti nella prima sezione della Manica Lunga del Castello Di Rivoli – c’è una mano piumata che lentamente scorre su una sezione di corpo. Piano, le piume si nascondono sotto il braccio; poi ricompaiono. Gesti delicati questi, che tornano ripetutamente in tutta la mostra “Rebecca Horn – Cutting Through The Past” a cura di Marcella Beccaria e in collaborazione con Haus der Kunst di Monaco di Baviera. Come in Metamorfosi (1915) di Franz Kafka – importante riferimento nella pratica di Horn – il corpo si manifesta alieno, aprendo la possibilità a forme di ascolto sconosciute e scoperte continue. Nei video presenti in Performances I e Performances II (1972) questa condizione sembra amplificarsi nella relazione tra il corpo e lo spazio che questo occupa. Delle lunghe protesi alle dita toccano il pavimento; un corpo rinchiuso in una soffice gabbia piumata; braccia e gambe dipinte di rosso confinano le estremità di un corpo nudo e una maschera-gabbia con applicate sopra delle matite costringe un viso al suo interno. Queste immagini ci accolgono per prime in mostra, dichiarando l’intento di una curatela che non solo rispetta le evoluzioni cronologiche dell’opera di Horn all’interno del percorso espositivo, ma ne restituisce le complesse condizioni percettive.
Un po’ come Gregor Samsa – protagonista del romanzo di Kafka – attraverso questo risveglio metamorfico dell’ingresso, iniziamo subito a lottare contro un prurito tanto concettuale quanto visivo, che affiora dal corpo e si propaga all’interno del lungo corridoio fino alla fine della mostra.
A metà della prima sezione, la presenza vertiginosa di un letto sopra la nostra testa ci costringe a torcere il collo, assumendo una posizione scomoda, quasi a emulare una di quelle nei video appena passati. Il primo sguardo è indispensabile per scrutare tutto il perimetro spaziale che occupa Inferno (1993-2024), grande installazione composta da letti di ferro e tubi di vetro, che a cadenza continua ma abbastanza lunga, vibrano elettrificati. I frammentati cerchi luminosi salgono fino a svasare dalla bocca dei tubi stessi, diffondendo nella stanza oltre che il suono, anche una certa dose di angoscia. Inferno è un’opera che da una parte rimanda alla convalescenza, all’attesa della cura e della guarigione, evocando in parte anche elementi biografici dell’artista; e dall’altra, nella sua verticalità, suggerisce l’impatto delle gerarchie sulle classi sociali, riportandoci bruscamente alla metaforica forma della scala, e alla provenienza da centri nosocomiali dei letti che la compongono.
Procedendo nel percorso espositivo, il rumore elettrico dei cerchi blu che fuoriescono dai tubi vetrati di Inferno continua ad accompagnarci. Il cerchio infatti è un altro importante elemento della ricerca di Rebecca Horn. Una forma che mettendo al centro la decostruzione del tempo in un costante dialogo tra interno ed esterno del linguaggio, delle opere, del corpo e dello spazio, riflette sulla complessità ciclica della cosmologia che ci circonda, e di cui facciamo parte.
Sconfinamento e protesi quindi, nella pratica di Horn, diventano dispositivi attraverso i quali intraprendere una complessa esperienza che scorre fluida tra identità, coscienza, memoria e corpo. I disegni di grande formato –(Bodylandscapes, 1988-2014), raramente esposti, e centrali nella mostra al Castello – ne sono testimonianza. Più che restituire un intento visivo-narrativo, diventano le tracce di gesti impressi sul foglio attraverso un processo performativo specifico, che segna il tempo e lo spazio percorsi all’interno di un formato chiuso. In questo caso la durata è relativa; e anche se strettamente legati all’intera pratica teorico-formale di Horn, queste opere sembrano aprire la possibilità a un ascolto diverso, dove la performatività non è più cinetica ma sedimentata.
Più complessa invece è la relazione tra corpo, oggetto e realtà all’interno di Der Eintänzer (Lo Gigolò, 1978), primo semi-lungometraggio di Rebecca Horn girato all’interno del suo studio di New York affittato a una scuola di danza. Tutto inizia con una reinterpretazione del jingle del film The Third Man (1949), suonata da Max (interpretato da Timothy Baum, storico partner di Horn) su una pianola giocattolo. Questa scena, e la lite tra Max e una ballerina, introduce le gemelle protagoniste. Una di queste, dopo aver ballato di fronte allo specchio, viene attratta da alcune spille per capelli trovate all’interno dello studio, rimandandoci agli oggetti appartenenti realmente a Rebecca Horn, e generando una escalation tra finzione e realtà ci trasporta fino all’ultima scena, dove attratta dalle ali meccaniche di The Feathered Prison Fan (1978), una delle gemelle cade dal palazzo sul marciapiede della strada.
Der Eintänzer (Lo Gigolò) è esposto all’incirca a metà della Manica Lunga, all’interno di una struttura oscurata che ne permette la corretta fruizione. Questa, oltre che creare le condizioni necessarie a calarsi nel film, sembra quasi rappresentare un momento di scissione tra un prima e un dopo all’interno del percorso espositivo.
Da quel momento infatti, l’invasione nel reale, ci accompagna come una presenza all’interno della mostra. Questa “cosa” che ci segue e che ci asfissia anche un po’, ci accompagna verso l’ultima fase, quella dell’introspezione simbolica, dove la soggettività di Horn si fa amplificatrice di condizioni di sofferenza condivise e taglienti. Allora la lama di Cutting Through The Past (1992-93), che recide circolarmente le porte ai quattro lati dell’installazione, incide una fessura anche nella nostra percezione, trasportandoci fuori e dentro l’opera seguendo queste aggressive maree emotive. E di colpo, ecco il nostro volto, astratto in una dimensione spaziale che non si capisce se è sopra o sotto, fuori o dentro. Un volto staccato dalla testa e dal corpo, che si riflette tra il soffitto e il pavimento, in quel pozzo senza fondo che è Miroir du Lac (2004). Un volto senza luogo ne gambe. Un’identità spiritica e vagante che si fa protesi di se stessa.
Quest’immagine di solitudine, mi sembra risuonare con Hauchkörper (Corpo che respira–Breathing body, 2017) dove il movimento cinetico di questi alti aghi di ottone, genera cerchi invisibili nell’aria, ricucendo un ritmo di respiro, che sembrava aver perso il senno nella seconda parte della mostra. Allora guardandoli, un po’ mi ritrovo. Calmo, sento di nuovo i piedi per terra, e quell’esperienza tecno-corporea, che la mostra mi ha regalato, si fa concetto assimilabile e mi saluta tornando nel corridoio.
Mi giro e guardo le grandi finestre. Mi accorgo solo ora di vedere le colline di Rivoli e i rilievi morenici. Il cerchio si chiude o ricomincia?

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Leonardo Bentini