Salma Rachid attraversa luoghi, culture e linguaggi con naturalezza. Il suo progetto, Retori, nasce come forma di espressione personale più che come marchio, un’estensione di un pensiero che prende corpo nel gesto e nell’abito. Un’idea di moda che si muove tra arte, memoria e identità. Una conversazione intima e diretta, che racconta una visione contemporanea e indipendente.
Cristiano Seganfreddo: Chi è Salma Rachid, al di là del progetto e dei codici estetici?
Salma Rachid: Sono una persona che ha vissuto in molti luoghi diversi: Alessandria, Londra, Los Angeles, Milano, Istanbul, Dubai. Ogni città ha lasciato un segno. Ho dovuto imparare a cambiare, a ricominciare. Quello che è rimasto costante è l’interesse per le culture e ciò che si muove in silenzio dentro di esse. Amo le cose semplici, stare con i miei figli, osservare ciò che mi circonda. Mi appassionano l’arte, la scrittura, la musica, il dialogo con le persone.
CS: Hai un luogo dell’anima?
SR: Non è un luogo fisico. È un’area culturale, il Mediterraneo. Una regione dove la storia è sempre presente e i sentimenti vengono espressi con naturalezza. Dove i contrasti convivono. Dove anche le cose più semplici hanno intensità. C’è un modo di essere diretto, emotivo, mai nascosto. È un codice non scritto che sento familiare.
CS: Che ruolo ha avuto l’arte nel tuo modo di guardare il mondo?
SR:È sempre stata presente, fin da bambina. Non come qualcosa da studiare, ma come un linguaggio naturale. Ha influenzato il mio modo di percepire le cose, di cercare bellezza e verità senza filtri. È uno spazio di libertà.
CS: Come vivi il rapporto tra culture, lingue e contesti diversi?
SR: Credo molto nello scambio. Ogni luogo ti insegna qualcosa, ma è importante anche portare sé stessi, senza perdere coerenza. Il dialogo autentico nasce da questa tensione tra assorbire e restituire.
CS: Retori sembra più un gesto artistico che un marchio. È nato così?
SR: Non è partito da un piano, ma da un’intuizione. Un’urgenza personale. L’idea che alcune cose abbiano un destino scritto. Retori è diventato forma nel tempo, attraverso l’artigianato, il racconto, il confronto con gli altri. Prima è stato un sentimento, poi è diventato progetto.
CS: Il nome “Chapter 1” suggerisce una narrazione. A chi ti rivolgi?
SR: A chi si trova in un momento di passaggio, di ricerca, di ascolto. La narrazione non è chiusa, non impone un messaggio. Invita a leggere la propria storia attraverso quella degli altri, anche attraverso i vestiti. I capi non vogliono definire, ma accompagnare.
CS: Il tuo lavoro sembra nascere più dal gesto che dalla collezione.
SR: Ogni collezione parte da una domanda, da un’intenzione. È un processo lento, che si costruisce nel tempo. Non penso agli abiti come prodotti, ma come oggetti che portano con sé una direzione, un significato.
CS: La prima presentazione di Retori è avvenuta in una galleria d’arte, a Palazzo Belgioioso, a Milano. Perché quella scelta?
SR: Volevamo creare uno spazio dove lo spettatore potesse rallentare, osservare. Una galleria ti invita a soffermarti, non a consumare. Palazzo Belgioioso aveva memoria nelle sue architetture. L’arte ci ha offerto un linguaggio adatto per parlare di moda come narrazione e non come evento.
CS: Perché hai scelto Milano come punto di partenza?
SR: Milano ha eleganza, rigore, e un approccio sobrio alla bellezza. Non si mostra subito, ma quando lo fa, lo fa con profondità. Ha una cultura del fare e una tradizione artigianale forte. Ho sentito affinità.
CS: Chi immagini quando pensi al corpo che indossa Retori?
SR: Una persona in cammino. Non importa l’età o la forma. Ci interessa chi è aperto, curioso, in ascolto. Qualcuno che usa gli abiti per raccontare dove si trova, non per dichiarare qualcosa. Vogliamo offrire strumenti, non maschere.
CS: La memoria ha un ruolo evidente nel tuo lavoro. Come la usi?
SR: Ci torniamo spesso. Non per nostalgia, ma per riconoscere ciò che resta vero nel tempo. Cerchiamo forme, gesti, texture che ci hanno toccato e le rileggiamo nel presente. L’archivio è vivo, non chiuso.
CS: Hai riferimenti invisibili?
SR: Sono figure che hanno lasciato tracce senza cercare visibilità. Paulo Coelho, per la semplicità con cui parla del destino. Fairuz, per la capacità di trasmettere emozione oltre i confini. Donne come Monica Vitti o Carolyn Bessette, che non inseguivano tendenze, ma creavano un proprio linguaggio.
CS: C’è qualcosa che ami e che non riesci a spiegare?
SR: Sì. L’odore del gelsomino di sera. L’energia che si prova al risveglio in una città nuova. Una frase che ti resta dentro. Le risate con chi ami. Sono momenti semplici, che però ti cambiano.
CS: Hai mai pensato di fare arte in senso più stretto?
SR: Sì. A volte immagino installazioni, scritture più lunghe, forse cinema. Non per spostarmi di campo, ma perché alcune storie chiedono linguaggi diversi. Retori non è confinato nella moda. È un’attitudine che può vivere altrove.
CS: Come immagini il prossimo capitolo?
SR: Vorrei continuare ad aprire spazi di collaborazione tra discipline. Con artisti, poeti, musicisti. Cercare forme che restano, che lasciano un segno emotivo e visivo. C’è ancora molto da scoprire.