zaza’ nasce in quella zona fluida dove l’arte incontra l’architettura, e dove la progettualità diventa un modo di attraversare il presente più che una gabbia formale. Alessandro Bava e Fabrizio Ballabio hanno costruito uno spazio che non pretende di reinventare la galleria, ma di abitarla con una sensibilità transdisciplinare: una ricerca che si muove tra pratiche eterogenee, geografie culturali diverse, e un’idea di contemporaneo fatta di attraversamenti più che di compartimenti. In pochi anni, zaza’ è diventata un punto di osservazione privilegiato per capire come le nuove generazioni di artisti rispondono a un mondo frammentato, e come una galleria emergente possa trasformare questa complessità in visione. Questa conversazione prova a mappare proprio quel terreno: dove nasce una programmazione, come si definisce una responsabilità culturale, che forma prende oggi lo spazio espositivo e quale ruolo può avere una galleria che si muove tra Napoli, Milano e il resto del mondo.
Cristiano Seganfreddo: La vostra formazione come architetti ha informato in modo significativo il vostro approccio alla direzione di zaza’. Come questa prospettiva transdisciplinare influenza le vostre scelte curatoriali e la concezione dello spazio espositivo stesso?
Alessandro Bava: Mi sono sempre sentito un po’ dentro e un po’ contro la pratica dell’architettura. L’arte è stata per me una via d’uscita dalle rigidità tecniche ed estetiche del progetto. Allo stesso tempo, la formazione da architetto mi ha dato una sensibilità formale e compositiva che inevitabilmente influenza il modo in cui guardo una pratica artistica.
L’arte mi interessa quando mi costringe a uno sforzo intellettuale ed estetico: per me la bellezza coincide con una forma di sovversione. Non cerco di portare elementi “architettonici” in galleria, anche se spesso l’architettura diventa naturalmente un tema di dialogo con gli artisti con cui lavoriamo.
Anche l’architettura dello spazio stesso riflette questo approccio: abbiamo trasformato un ex laboratorio di profumeria mantenendo tracce della sua vita precedente. Questo modo di lavorare as found è oggi più stimolante per gli artisti, come dimostrano anche esperienze più radicali di spazi come La Pulce a Roma, Tramps a New York o Clementine Seedorf a in Cologne o lo spazio di Federico Vavassori a Milano riprogettato da Armature Globale. Con lo stesso spirito abbiamo progettato la sede della Fondazione INCURVA a Trapani.
CS: zaza’ si posiziona all’intersezione di diverse pratiche culturali contemporanee. Potreste articolare come questo spazio ibrido permette forme di sperimentazione che trascendono i confini tradizionali della galleria d’arte?
Fabrizio Ballabio: Alessandro ed io lavoriamo da anni in diversi ambiti della produzione culturale: architettura, arte contemporanea, ricerca, editoria, formazione, moda. Questa convergenza ha segnato fin dall’inizio la nostra pratica congiunta — che, se contiamo gli anni del collettivo åyr, dura da oltre dieci anni — e influenza tuttora la programmazione di zaza’.
Per questo siamo naturalmente attratti da artisti che non hanno percorsi monolitici. Detto ciò, zaza’ non è pensata come uno “spazio ibrido” che vuole ridefinire i confini della galleria: l’interesse per la transdisciplinarietà riguarda più la programmazione che la forma stessa della galleria.
AB: Prima di aprire, in un periodo di scrittura e ricerca, mi interessava capire e valorizzare pratiche multidisciplinari, e questa attenzione influisce ancora sulle nostre scelte. Non a caso, molti degli artisti con cui lavoriamo provengono da contesti diversi prima di approdare all’arte.
Quest’anno, ad esempio, abbiamo presentato la pratica multidisciplinare di Sylvano Bussotti, la performance teatrale del collettivo Amin Dolcezza a Napoli e il designer americano Jonathan Muecke a Milano.
CS: Nel tuo percorso hai navigato tra pubblicazioni, ricerca accademica e pratica curatoriale. Come questa polifonicità di esperienze si riflette nella programmazione e nella visione concettuale di zaza’?
AB: Penso che questa esperienza si traduca soprattutto nella visione strategica della galleria, che in pochi anni si è fatta conoscere a livello internazionale con un punto di vista non derivativo e non provinciale.
FB: Aggiungerei che è un punto di vista di ricerca e innovazione. Anche se ci piace pensare a zaza’ come a una “normale” galleria emergente, facciamo parte di quella tradizione di gallerie fondate da figure che non provengono direttamente dal sistema, ma che si sono avvicinate a esso da pratiche creative, senza riprodurre modelli già consolidati.
CS: La galleria emerge in un momento di ridefinizione delle strutture istituzionali dell’arte. Quale responsabilità senti nei confronti della costruzione di nuovi modelli di sostegno per pratiche artistiche emergenti o resistenti alle logiche dominanti del mercato?
AB: Credo che la responsabilità di una galleria emergente sia quella di fare da link tra l’avanguardia delle pratiche artistiche e il pubblico. Gli artisti, soprattutto i più giovani, rispondono alle trasformazioni sociali, storiche e politiche del presente. Il nostro compito è tradurre queste ricerche, comunicarle e farle conoscere anche attraverso il mercato, attribuendo loro valore. Così la galleria non si limita a seguire logiche economiche, ma contribuisce a dare forma al gusto e a riconoscere il significato culturale delle pratiche artistiche.
FB: Questo è particolarmente vero in Italia, dove manca un’infrastruttura solida a sostegno dei giovani artisti. A Londra, dove ci siamo formati, esiste una rete di spazi indipendenti supportati da enti come l’Arts Council, che offrono concrete opportunità agli artisti emergenti. Lo stesso accade in Francia, Germania, Svizzera e nei paesi scandinavi. In confronto, l’Italia è ancora indietro anni luce, e proprio per questo le gallerie hanno una responsabilità ancora maggiore.
CS: Come concepisci il rapporto tra locale e globale nella programmazione?
AB: Quando ho aperto zaza’ nel 2019 come project space, l’idea era portare a Napoli pratiche di artisti giovani conosciuti a Londra, New York, Berlino, spesso ancora alle prime esperienze espositive. Col tempo, conoscendo artisti a Napoli e Milano, il programma si è evoluto insieme a loro.
In altre parole, la programmazione è stata tanto influenzata quanto influenzante: una visione radicata in una certa tradizione dell’arte contemporanea, con precise radici di radicalità.
CS: L’architettura e lo spazio costruito hanno un ruolo fondamentale nella tua riflessione teorica. Come queste considerazioni si materializzano nell’esperienza dei visitatori?
AB: Lavoro a installazioni da oltre dieci anni e ci impegniamo affinché le mostre da zaza’ siano sempre ben allestite. Detto questo, non tutte puntano a un’esperienza spaziale forte. Anzi, nell’ultimo anno ci ha interessato quasi il contrario: proporre un approccio più classico, wall-based, anche per giocare con le aspettative del pubblico di una galleria emergente.
Ci piace mantenere un equilibrio tra scelte più convenzionali e altre più di rottura.
Oggi vedo chiaramente la distinzione tra il ruolo di gallerista e quello di architetto: una scelta consapevole, condivisa con il mio socio Fabrizio, per preservare entrambe le attività e offrire un’esperienza più autentica.
CS: La nozione di “ricerca” in una galleria contemporanea può assumere molti significati. Come si traduce nel lavoro quotidiano di zaza’?
FB: Entrambi abbiamo esperienze da scrittori e redattori e, dalla formazione da architetti, abbiamo assimilato la cultura della progettualità. Per noi la ricerca è parte del mindset e si traduce in un programma che non è una semplice somma di mostre, ma un percorso coerente che propone un’idea di cosa significhi fare arte oggi e che dialoghi con il contesto in cui operiamo.
AB: Per me, la ricerca è trovare un equilibrio tra ciò che ci interessa e ciò che può interessare al nostro pubblico. Non disponendo di grandi capitali, le nostre decisioni hanno sempre cercato di coniugare la strategia culturale e quella commerciale, e siamo orgogliosi di aver costruito un’attività sostenibile. Questo per me è un risultato importante e conferma la convinzione che l’arte abbia un ruolo primario in un mondo sempre più frammentato.
CS: In un’epoca di accelerazione digitale, come bilanci la materialità dell’esperienza espositiva con la disseminazione virtuale?
AB: Ultimamente stiamo pensando di chiudere l’Instagram della galleria: sentiamo sempre più che il contemporaneo va verso l’opacità dell’informazione e verso micro-comunità offline. Forse succederà presto…
CS: La tua traiettoria professionale attraversa diverse geografie culturali e intellettuali. Come queste migrazioni hanno influenzato la tua comprensione del ruolo di una galleria oggi?
AB: Sono entrato in contatto con l’arte contemporanea a Napoli da adolescente, poi ho vissuto dieci anni in Inghilterra e trascorso periodi significativi negli Stati Uniti. Queste esperienze hanno inevitabilmente influenzato la mia visione e il programma della galleria.
Sono cresciuto in un mondo che sembrava globale e fortemente globalista; oggi, invece, vediamo un mondo più frammentato. Proprio per questo credo che l’arte abbia oggi un ruolo ancora più importante: per sua natura resta un linguaggio globale, fatto di idee e identità che si costruiscono a cavallo tra nazioni e contesti diversi. La cultura vive di ibridazioni e trasformazioni continue.
Con zaza’ ho cercato di portare questa esperienza costruendo un programma polifonico, capace di intrecciare pratiche italiane e internazionali, non solo per mostrare visioni differenti ma anche per trasmettere un modo di concepire l’arte maturato in contesti specifici. La galleria, in questo senso, diventa uno spazio in cui si rinnova quella vocazione globale che è propria dell’arte.













