“Vite in transito”, la grande mostra personale di Adrian Paci, dopo aver debuttato allo Jeu de Paume di Parigi lo scorso febbraio, giunge al PAC di Milano con un’ampia selezione di opere realizzate dalla metà degli anni Novanta fino a The Column (2013). Il lavoro di Paci sa coniugare narrazione, rigore formale e riflessione sociale, offrendo una visione poetica e problematica delle trasformazioni politiche e umane in Europa dopo la caduta del Muro di Berlino. Paci ha prodotto un corpus di opere influenzato dal clima culturale di quegli anni dove al tema dell’immigrazione si unisce la riflessione sul ruolo delle immagini nel racconto delle nostre esistenze. Un’esplorazione universale sui temi della perdita, del moto di persone nello spazio e nel tempo, della ricerca di un altrove umano e geografico.
Alessandra Galletta: Quali “vite in transito” racconti in questa tua grande mostra?
Adrian Paci: “Vite in transito” è un titolo che rispecchia l’atteggiamento generale, la sensibilità dei miei lavori, la ricerca di qualcosa che si verifica in contesti diversi, che non ha punti di riferimento fissi, ma proprio grazie a questo essere in movimento, il transito diventa qualcosa che la identifica. Sono le identità aperte quelle che mi interessano e spesso sono collegate a delle vite, per questo “Vite in transito” mi sembrava un titolo capace in due parole di indicare qualcosa di preciso ma che rimanesse aperto nel suo significato.
AG: Vent’anni di produzione sono difficili da selezionare, quale criterio di scelta hai usato?
AP: Ho operato una selezione che ha trovato un suo percorso narrativo specifico per gli spazi di Jeu de Paume, e che si sono poi modificati per “Vite in transito” negli spazi del PAC, molto diversi da quelli di Parigi. Fare una mostra vuol dire costruire tre tipi di incontro: incontro tra i lavori, tra i lavori e lo spazio e un incontro tra i lavori, nello spazio, con il pubblico. La mostra “Vite in transito” viaggerà ancora, e sarà ospitata al Musée d’Art Contemporain di Montreal, il Roda Sten Konsthall di Göteborg e al Trondheim Kunstmuseum di Trondheim. Ogni volta lo spazio determinerà il remix di queste varianti nella scelta delle opere e nell’allestimento.
AG: C’è anche la variante nel tempo del rapporto dell’artista con le sue stesse opere.
AP: Con il passare degli anni il rapporto tra l’artista e le sue opere cambia, ed è giusto che cambi. Anche perché io immagino le opere come un organismo che prende vita dall’artista ma che poi ha una sua vita indipendente in rapporto ad altri spazi, un altro pubblico e anche altri lavori. Per questo dico che è anche un incontro tra lavori; metti un lavoro che hai fatto prima accanto a uno nuovo e si riattivano a vicenda. Una nuova mostra è un’occasione per il lavoro di riattivarsi.
AG: Forse la vita più “in transito” di tutte quelle che racconti è la tua…
AP: Perché le opere mantengano una loro attualità, bisogna astrarle dall’aspetto biografico, che pure è un elemento dell’opera. Nessuno dei miei lavori è solo autobiografico, però ci sono dei lavori in cui la mia presenza è più esplicita. In Home to Go per esempio prendo un tetto capovolto sulle spalle. In Believe Me I Am an Artist mi reco alla stazione di polizia per cercare di convincere il poliziotto che sono un artista; in A Real Game sono io che entro in dialogo con mia figlia e allora il video racconta un’esperienza vissuta da entrambi e rielaborata da lei in forma di gioco. In Piktori, io vado allo studio di un pittore a chiedere il mio certificato di morte e questo sviluppa un monologo dove, partendo dalla sua situazione, tocca questioni più ampie dell’arte e del suo rapporto con la vita. Poi ho fatto Vajtojca in cui sono sempre io che vado da una prefica a vivere il rituale della mia morte, e in un certo senso con questa opera pensavo di aver concluso la mia presenza fisica nei miei lavori.
AG: Per poco, visto che poi nella performance di Scicli sei il protagonista assoluto del paese che viene a omaggiarti.
AP: The Encounter ha riattivato la mia presenza nel lavoro in una forma più esplicitamente performativa. Questo elemento dell’artista che va ad attivare un’esperienza è fondamentale: in un certo senso il mio ruolo è quello di un celebrante, ma quello che si celebra non è l’artista, è il gesto; in The Encounter è la stretta di mano e l’artista diventa la soglia attraverso cui le persone passano per attivare questo gesto. È una performance che avevo immaginato e pensato sin dall’inizio attraverso una certa inquadratura perciò è stato naturale poi dargli la forma di un lavoro video dove non c’è montaggio ma un’unica sequenza.
AG: Insomma non sei capace di star fuori dall’opera.
AP: Solo perché dovevo fare quella performance… L’elemento performativo ha a che fare con una dimensione esperienziale che io voglio sottolineare nel lavoro. Quando faccio un lavoro spesso sento la necessità di concepirlo non solo come una messa in scena ma anche come un’esperienza vissuta. Quando ho fatto Turn on, andare in quella piazza, su quelle scalinate, far sedere là i disoccupati con i generatori, i loro rumori, il loro fumo e le lampadine era un’esperienza importante da vivere in prima persona. Così come andare in America in un aeroporto, con tutte le restrizioni americane, portarci un gruppo di immigrati clandestini è parte dell’esperienza della quale il lavoro diventa testimone. Anche se Centro di Permanenza temporanea non si vuole raccontare come il documento di un vissuto, l’esperienza diretta entra nel lavoro, e chi guarda l’opera lo sente.
AG: Anche Inside the Circle riguarda un’esperienza vissuta, e questa volta hai “attivato” anche una residenza per artisti…
AP: Inside the Circle è un lavoro che ho fatto nel 2011 durante “Rave”, che è una residenza d’arte a Trivignano. Sono andato a trovare due amiche artiste che lavorano lì, Isabella e Tiziana Pers, nella loro casa-studio. Tiziana aveva questo maneggio di cavalli che lei salvava dal macello perché, oltre a essere un’artista, lotta per i diritti degli animali e il posto mi sembrava fantastico. Avevo questa memoria di quand’ero piccolo che andavo nelle stalle dei cavalli a fare dei disegni… Quasi per scherzo ho detto alle sorelle Pers “qui dovete fare una residenza”, e loro hanno fatto sul serio. Così “Rave” è iniziata con me; ho fatto un workshop con giovani artisti del Friuli ed europei, poi c’è stato Ivan Moudov, e ora arriveranno altri artisti.
AG: Come decidi la tecnica più adatta per ogni tua opera?
AP: Io ho cominciato come pittore. Negli anni della scuola facevamo tanti disegni, paesaggi, ritratti. Ho continuato a fare quello per tanti anni sia al Liceo che in Accademia perché non si poteva fare altro… e allora cercavo di sviluppare una ricerca stilistica. Solo che tutto questo succedeva in un ambiente politico con restrizioni molto forti e quindi ogni ricerca stilistica era forzata dentro limiti molto stretti. L’arrivo qui è stato accompagnato da grandi confusioni, il contatto con l’arte contemporanea, con queste rotture che l’arte aveva proposto nel Ventesimo secolo e poi con tutte le aperture dopo la seconda metà del secolo… questo insieme di elementi ha messo in discussione l’importanza dello stile, anzi, ha reso lo stile qualcosa di poco interessante per me. Però, nella mancanza dello stile c’è una ricerca di continuità, qualcosa che lega i lavori dall’interno e tra loro. Si tratta di un tentativo di coerenza, pur nella trasformazione e nella diversità, che non sia stilistico ma che vada oltre lo stile. Questa mostra per me è importante non per un fatto introspettivo che mette insieme i lavori, cosa facevo nel 1997 o cosa faccio nel 2013, ma per vedere dove mi colloco io all’interno di tutti questi lavori, qual è quella dimensione che cresce in questa diversità di soggetti di tecniche.
AG: Quindi “Vite in Transito” ti vede anche un po’ spettatore della tua ricerca.
AP: Avere in mostra tanti lavori serve a capire, all’interno di queste narrazioni diverse, dove sono io, dov’è la spina dorsale di questa ricerca. E la spina dorsale di questa ricerca va oltre lo stile. Il mio rapporto con i mezzi che utilizzo non è mai una scelta di compiacimento stilistico ma una scelta necessaria. Quello che mi interessa sempre è capire la complessità delle cose, non chiudere.
AG: In mostra non ci sono solo video e pittura ma anche il mosaico.
AP: Anche il mosaico viene dal video, è il frame di un video che diventa mosaico. Cosa prende il mosaico dal video? Cosa aggiunge? Aggiunge la sua fisicità, la sua matericità, prende dal video l’aspetto di dettaglio fatto di una certa grana, perché il video dal quale deriva quella immagine non è alta definizione. Proprio grazie alla sua bassa definizione, il video ha un’altra serie di qualità, che per me sono qualità pittoriche. Nei pixel del video vedevo quasi dei volumi, qualcosa… vedevo della fisicità. Qui in mostra ci sono anche due mattoni, due piccole terracotte, con un intonaco sopra. Perciò la ruvidità dell’intonaco entra in contrasto con l’aspetto immateriale del video. L’ho voluto amplificare ancora di più col mosaico, per vedere cosa succede. Questa scelta di amplificare i mezzi è per non rimanere intrappolato in una tecnica e non identificarmi con uno stile specifico ma con la voglia di indagare quali possano essere le potenzialità che un materiale ha per essere sviluppato in modo diverso.
AG: Ma una grande antologica è anche l’occasione per presentare un nuovo lavoro, ed ecco The Column, la vera protagonista di “Vite in transito”.
AP: The Column nasce da un racconto, il racconto produce in me un’immagine che io sento potente, e mi avventuro per realizzarla e in quest’avventura della realizzazione, tante cose succedono. Un mio amico mi dice che si possono fare sculture in Cina con una buona qualità a costi accessibili e possono arrivare con una certa velocità perché il lavoro lo fanno sulla nave. Questo mi ha affascinato perché è qualcosa di crudele ma allo stesso tempo di favoloso. Così nasce l’idea di questa scultura, e del film che racconta la sua venuta al mondo.
AG: A queste condizioni avresti potuto scegliere qualsiasi soggetto, ma tu ti sei rivolto al passato, alla forma di una colonna classica.
AP: Sì, il modello della colonna è un modello legato alla tradizione occidentale che va in Oriente e ritorna di nuovo in Occidente prendendo corpo in questo viaggio nell’Oceano… mi sembrava qualcosa che valesse la pena affrontare. L’immagine del blocco di marmo scolpito nell’Oceano stava lavorando dentro di me e ho pensato a quale tipo di scultura potesse rispondere meglio a questa immagine. Infine ho scelto la colonna, qualcosa di semplice e articolato nello stesso tempo, un simbolo della stabilità e del potere, ma che nel mio progetto si produceva in viaggio, nel transito e rimanendo sdraiata quasi in una specie di riposo. Tutta la storia attorno non aveva niente di eroico in sé, di poetico forse sì, ma non di eroico.
AG: La colonna è sempre presente nella sua fisicità in tutte le versioni di “Vite in transito”, come una testimonianza vivente che la fiaba si è avverata.
AP: Sicuramente il lavoro è il video. Il video può stare senza la colonna, la colonna non può stare senza video. Però io volevo che la colonna fosse presente con il suo corpo nella mostra. Volevo che questo viaggio che resta aperto nel video venisse in un certo senso concluso. L’unicità è un elemento legato alla classicità, all’opera d’arte classica. Anche se la colonna da sola come scultura non può essere considerato un mio lavoro. La considero qualcosa tra un ready made e un’anti-ready made. Di solito l’oggetto ready made deve essere banale per mettere in rilievo il gesto dello spostamento dell’artista. La colonna è un ready made perché non l’ho fatta io, ma anche un anti-ready made perché si tratta di un oggetto che ha un suo valore ed è frutto di un processo lungo ed elaborato che richiede abilità tecniche. La colonna come scultura non è opera mia, io ho attivato però il processo della sua produzione.
AG: È il lavoro dei cinque operai che l’hanno realizzata?
AP: Nel momento attuale associamo la Cina a un grande cantiere dove si producono oggetti che noi gli mandiamo come modello e loro riescono a rifare con costi minori. Nel caso della colonna, ovviamente questo è presente però è anche presente un sapere antico che loro hanno nel fare le cose. Dei cinque artigiani cinesi che hanno scolpito la colonna, nessuno ha fatto la scuola d’arte però hanno imparato a scolpire il marmo dalla scuola familiare, dal loro villaggio, perché loro abitano dove ci sono le cave e i loro nonni e i loro padri scolpivano il marmo. Da piccoli hanno imparato a usare quegli strumenti e oggi fanno sculture in marmo spesso di tipo occidentale anche se non appartiene alla loro tradizione culturale. Ovviamente io gli ho offerto un modello che loro conoscevano già, non era un modello totalmente sconosciuto e in questo sono intervenuto poco.
AG: Cosa ti aspetti da questa tournée internazionale di “Vite in Transito”?
AP: Più che alla tournée penso a ciascuna singola mostra e penso agli incontri che i miei lavori faranno con il pubblico. Il mio atteggiamento come artista è di uno che sta attento alle cose per indagare le loro potenzialità. Vorrei che lo spettatore prendesse il mio posto, guardando i miei lavori. Che diventasse colui che riattiva i lavori e che, grazie a questo dialogo, guardasse le cose con un’attenzione diversa.