Ilaria Gianni: Mastequoia Opera 09-13 è un film diviso in tre capitoli i cui protagonisti sembrano essere l’occhio di una telecamera analogica e tre città: Rotterdam-Tokyo-Fés. Non vi è sceneggiatura né una narrazione lineare. Il soggetto del film ruota attorno alla trasfigurazione dell’immagine: l’immagine del corpo, del paesaggio urbano, della materia, alterata, distorta, ripresa in maniera performativa che, meticolosamente montata, scandisce il ritmo e dà il via all’illusione filmica. La stilizzazione fotografica, la trama della pellicola — che con il passare dei minuti diventa sempre più astratta — costituiscono le linee guida del film. L’estetica, come conseguenza, è così pregnante sotto il profilo percettivo, cognitivo ed emotivo da far perdere coscienza di una temporalità riconoscibile e di un contenuto rintracciabile. Il dispositivo cinematografico sembra frantumarsi nella sua essenza di strumento di mediazione e rappresentazione. Ci puoi raccontare più in dettaglio l’operazione di costruzione e di trasformazione dell’immagine e della narrazione in Mastequoia Opera 09-13?
Carlo GabrieleTribbioli: La storia del lavoro si divide in due fasi. Fra il 2009 e il 2012 il lavoro si è svolto con grande libertà formale, lontano dal suo destino finale, mosso da un progetto semplice e dai contorni piuttosto indefiniti. Tre tracce di riferimento guidavano un’esasperata attenzione dell’occhio della macchina da presa, organizzavano azioni a suo favore. L’intenzione originaria era costruire un film robusto sulla base di materiali minuti, di natura povera, a portata d’occhio per così dire, rintracciati o provocati nel reale, a ridosso delle nostre vite quotidiane. Uno spazio d’azione ampio nel quale sono state accumulate le 54 ore di girato che lo fondano. Ridurre a un’unità tale materiale, è stata, nel 2013, la direttiva operativa della sua seconda fase — vincolata, fortunatamente, a una scadenza precisa, prezioso strumento di coazione a dare una conclusione al lavoro — la presentazione al Festival lo Schermo dell’Arte di Firenze, prevista per il novembre 2013. Un materiale affatto autistico, assorto, esteso si è trovato a subire tutte le prepotenze censorie di un ignoto (a noi stessi) processo di identificazione; a confrontarsi con le rigide necessità che l’unità di tempo esige per dimensionare e individuare l’oggetto filmico. Queste esigenze formali hanno travalicato, messo in crisi, superato ogni altro strumento di progetto, rivelando il film nella sua faticosa identità, per la quale le architetture, le trame premesse, le immagini, si sono sottomesse alle ragioni di una composizione tutta a posteriori. Narrazione e psicologia, elementi la cui centralità in un’opera cinematografica è a mio avviso assolutamente arbitraria, sono deliberatamente sottoposte ad altre necessità filmiche: l’intenzione cinematografica è, secondo la nostra intenzione, assolta in virtù di necessità formali di riduzione a unità secondo: tensione, equilibrio, ritmo, organizzazione delle potenzialità cromatiche. “Narrazioni” rimangono presenti, ma non “Una Narrazione”. Gli strumenti narrativi che hanno guidato la raccolta del materiale permangono in forma di ruderi o frammenti. Strutture architettoniche testuali sono offerte al contempo come pause e come strumenti di riferimento immaginario, i quali non si permettono comunque mai di soverchiare la materia filmica, la cui ricchezza espressiva non si esaurisce semplicemente nell’assolvere le necessità di una scrittura a priori. Proprio questa dimensione di scoperta e d’esperimento costante ha caratterizzato la natura dell’operazione in tutta la sua estensione: riconoscere un limite al controllo, osservare a distanza, attendere, accettare indicazioni impreviste, modificare il disegno, non costringerne la forma. In ciò ha avuto ruolo fondamentale l’essere stati tre.
IG: Partiamo dal numero tre per porre le prossime domande. Mastequoia è un collettivo di artisti composto da tre persone: tu, Gabriele Silli, Giacomo Sponzilli. Tre paia di occhi hanno dunque diretto lo sguardo della telecamera; tre intuizioni differenti si sono confrontate nella fase delicata di montaggio quando l’accumulo di immagine è diventata una forma (fluida certo ma pur sempre una forma); tre conoscenze si sono associate, integrate e completate vicendevolmente costituendo un coro. Come avete costruito e affrontato il dialogo nel corso delle varie tappe di Mastequoia Opera 09-13?
CGT: Sono oramai dieci anni che lavoriamo insieme, l’esperienza e il metodo di interazione fra di noi non sono risultati nuovi, ma sicuramente in questa occasione radicalizzati. L’opera di montaggio risolutivo, che ha raccolto le varie frasi e architetture accennate nel corso degli anni per risolverle nella direzione che si è rivelata quella finale, è stata svolta in 40 giorni di ritiro e confronto serratissimo nella casa di vacanze del Professor Kawasaki a Uraga. Casa che si è fatta teatro, in quel mese e mezzo, di un vero e proprio, estenuante, corpo a corpo: immagine per immagine, struttura per struttura, tutto è stato sottoposto a una robusta critica. Direi che non c’è un passo nel film al quale ognuno di noi non abbia sentito la necessità di dare il suo personale assenso. Secondo movimenti di avvicinamento e distanziamento, fiducia e censura reciproca, dense discussioni e lunghi silenzi, un minimo comune denominatore è emerso dalla natura del materiale e ha rivelato l’identità finale del lavoro, l’estetica di riferimento, intorno alla quale è stato organizzato e raffinato quanto superstite. Opera di distillazione molto incerta e faticosa.
IG: Tre città distanti si sono fuse in un’unica e coerente traccia estetica. L’intersecarsi, lo scomporsi dei frammenti reali e di quelli elevati a carattere simbolico hanno permesso a Rotterdam, Tokyo e Fés di prendere le distanze dalle consuete rappresentazioni e svelarsi nella loro carica figurativa. Mi sembra che la voce corale abbia contribuito a costruire una nuova identità per queste città.
CGT: Ognuno ha proposto e tutelato al principio un progetto circa una città, offrendo una sua visione di partenza, un particolare motivo d’attrazione e degli strumenti di base per agire sul suo territorio a favore di camera. Ma il processo di partecipazione sul campo ha poi immediatamente moltiplicato la portata delle visioni iniziali in direzioni ulteriori, quand’anche mai alternative. Un vantaggio particolarissimo di chi riesce a lavorare insieme che voglio citare estemporaneamente, oltre alla moltiplicazione delle visioni e degli strumenti, è la moltiplicazione di livelli di tempo d’elaborazione e sedimentazione di elementi ed idee. Così, ad esempio, può essere avvenuto che una idea guida, forte nelle mani di uno di noi, subisse un processo interno, solitario di allontanamento dalle sue ragioni originarie e venisse ritrovata più pura e prossima allo stato di partenza nelle mani di un altro che non aveva avuto necessità di elaborarla. A un movimento necessario di messa in crisi di uno strumento, si accompagna così un’opera di custodia e sedimentazione dello stesso, che viene a ritrovarsi e a riscopre le sue ragioni a distanza di tempo. Due stadi equivalentemente validi di una elaborazione si ritrovano così a confrontarsi dando luogo a una terza opzione, risultato di questo confronto.
IG: La possibilità di manipolare gli elementi, filtrarli e sottoporli nel tempo a una sedimentazione ha portato alla formazione di immagini sintetiche. Non guidate lo spettatore verso un percorso definito ma lo spronate a mettere in pratica le sue abilità di correlazione e sincretismo. Dopo la visione di Mastequoia Opera 09-13, non riuscirò a relazionarmi a Rotterdam, Tokyo e Fés come prima e le considererò unite da una presenza allegorica. L’astrazione del reale vi ha condotto alla fondazione del sacro. Come vi ha aiutato il mezzo filmico nella costruzione di questa inedita storia, a mio avviso al limite con la mitologia? Come avete trattato e processato insieme i diversi caratteri delle città?
CGT: L’unità d’approccio alla ripresa prima e al montaggio poi fanno dei tre brani un’unica composizione per la quale elementi immaginari in uso con riguardo a una particolare città, si stendono e abbracciano anche le altre e vice versa. Una tendenza a cercare nell’ambito di evocazioni sacrali e riferimenti religiosi arcaici immagini e forze di riferimento è senz’altro presente, ma con intenzione parziale e strumentale. Una “trasfigurazione del reale” è operata tanto con riguardo ai riferimenti religiosi evocati, che tu citi, quanto con riguardo alla contemplazione di semplici immagini di paesaggio urbano o di miseri oggetti. Dal momento in cui riferimenti narrativi, strumenti di lettura, indicazioni per possibili interpretazioni del materiale visivo sono costantemente accennate e tolte, la visione del film invita chi lo guarda a compiere un proprio sforzo di composizione e ciò può permette senz’altro connessioni e interpretazioni molteplici e differenti.
IG: Il tuo prossimo film, Frammento 53, appunti liberiani è frutto di un’altra collaborazione. Per questo nuovo film-documentario stai lavorando con il documentarista e ricercatore Federico Lodoli. Frammento 53, appunti liberiani si propone di esplorare il ruolo della guerra e della violenza nella fondazione di una società e nella costruzione di una identità culturale. La vostra ricerca parte da riferimenti teorici-filosofici che trattano il conflitto come categoria astratta, per approdare al caso studio della Liberia, stato africano che avete a lungo studiato e visitato. Il film sarà un lavoro di confronto etico, un racconto esistenziale, anche qui al limite con la costruzione mitologica, in cui la nozione di tempo e la restituzione della memoria sono intese in maniera differente rispetto all’ordine storico inerente le antiche civiltà occidentali. Quali sono le associazioni che avete compiuto nel corso della vostra ricerca e quali invece il risultato che vorreste ottenere per Fr.53?
CGT: L’obbiettivo è realizzare un film che, nella sua crudezza e semplicità, si costituisca come strumento per un confronto critico con i valori legati al fenomeno della guerra. Guerra intesa come radicale e ultima espressione, nella coordinata umana, di forze di conflitto necessarie e ineludubili. Forze alle quali tutto è subordinabile secondo una certa visione dinamica del mondo la quale ha sempre conferito al fenomeno statura di accadimento mitico, di fondazione. Un confronto etico con una condizione di costante prossimità della morte, del pericolo, di forze di “sprogettazione” e distruzione. Il film si costruisce intorno a una collezione di testimonianze frontali da noi raccolte in una serie di incontri e confronti con guerrieri, generali, signori della guerra, protagonisti di un conflitto particolarmente caotico e radicale, rintracciati nel corso di nove settimane di permanenza sul territorio liberiano. Frammento 53, appunti liberiani verrà presentato a settembre nel contesto della Biennale de L’Image en Mouvement presso il Centre D’Art Contemporain di Ginevra, il quale ha adottato e prodotto il progetto assieme alla casa di produzione Ring Film e alla Galleria Federica Schiavo.