Nel 1994 appare la prima copertina di Maurizio Cattelan su Flash Art. A quella ne seguono altre undici. Marco Senaldi analizza la “strategica” proliferazione sotto forma di immagini delle opere cattelaniane.
Strategies
Credo di non esagerare dicendo che Maurizio Cattelan ha sempre avuto un debole per le copertine. Dai suoi esordi sulle pagine di questa rivista, fino ai ritratti di copertina di L’Uomo Vogue e approdando all’intera operazione Toilet Paper, le cui cover restano memorabili, mi pare che Cattelan si sia dedicato a questo genere di divulgazione con uno scrupolo non certo casuale, se non addirittura sospetto.
Se ben ricordo, intorno al 1990, quando lavoravo come interno a Flash Art e Maurizio bazzicava la redazione, a un certo punto cominciò a circolare la voce che lui aveva chiesto un bancale di vecchi numeri della rivista per farne un’opera. In effetti, bastò poco tempo perché si venisse a sapere di Strategies (1990), una piramide di Flash Art usati come altrettante carte da gioco – insomma, una scultura che stava a significare una dichiarazione di intenti (la “strategia” futura su cui si sarebbe basato il suo lavoro) e insieme una metafora abbastanza impietosa del sistema dell’arte, paragonato appunto a un castello di carte.
Ma c’è un dettaglio in questa storia che non si può certo trascurare: io personalmente non ho mai visto Strategies – intesa come opera scultorea – perché quello che invece le diede visibilità fu la falsa copertina di Flash Art che Cattelan fece realizzare (pare dal grafico ufficiale della rivista, ma non saprei dire se anche questa è una bufala…) con l’immagine della propria opera: un falso talmente perfetto da cominciare a diffondersi istantaneamente.
Ora, in quegli anni, il sistema dell’arte (che in Italia era ai suoi esordi) era oggetto di forti critiche da parte di numerosi artisti e – poiché si riteneva che Flash Art e in genere le riviste d’arte non solo ne facessero parte, ma lo sostenessero in maniera strutturale – diversi erano coloro che realizzavano parodie o vere e proprie contraffazioni di copertine, di inviti, di cataloghi, di manifesti (indimenticabili, ad esempio, i dipinti di Simon Linke – del resto quasi coetaneo di Cattelan – che imitavano le pubblicità delle gallerie su Artforum). Nessuno però aveva capito che il titolo del pezzo di Cattelan non era solamente ironico: la sua strategia era, a tutti gli effetti, di usare quella falsa copertina per averne un giorno una vera.
Flash Art Story
Certo, potremmo domandarci: perché proprio Flash Art? E la risposta sarebbe semplice: perché a Milano (in Italia cioè) la rivista raccoglieva il meglio della critica d’arte; perché la sua redazione era (relativamente) permeabile; perché il suo direttore, Giancarlo Politi, era una figura mitica in quello strano universo… Ma forse c’è dell’altro. Cattelan aveva colto una semplice verità che io stesso, come critico e curatore, facevo fatica a vedere (o forse ad accettare); e cioè il ruolo strategico delle copertine della rivista. Anche se oggi, tra online magazine, copertine multiple per lo stesso numero, free press e quant’altro, questo ruolo è forse meno rilevante, a quell’epoca, il privilegio di una copertina poteva costituire una potente leva pubblicitaria per l’artista che lo avesse ottenuto. Cattelan, come artista, lo aveva intuito già allora: ma io, come critico, credo di poterne tracciare solo oggi, retrospettivamente, un’autentica analisi.
Bisognerebbe infatti cominciare dal fatto che, all’inizio della sua storia, Flash Art semplicemente non aveva alcuna copertina ed era più simile a una fanzine ciclostilata in bianco e nero che al rotocalco a colori che sarebbe diventata a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Ma, anche più tardi, titolo della rivista e copertina erano semplicemente dei segnali di riconoscimento e, se si guarda bene la piramide di Cattelan, s’intravede uno dei numeri di maggior successo di Flash Art, quello con in copertina una Marilyn di Warhol (Flash Art Italia no. 153, dicembre 1989 – gennaio 1990) – la rivista si serviva cioè di un’icona del passato come civetta, così come, nello stesso periodo, i periodici d’attualità mettevano in copertina ragazze seminude per parlare di qualunque argomento, dalla crisi petrolifera al PSI.
Ma quando misi piede per la prima volta nella redazione di via Farini 68 – cioè, più o meno, quando anche Cattelan iniziò a orbitare lì intorno – stava succedendo qualcosa di decisivo: la rivista aveva abbandonato la rilegatura a punti metallici per quella a filo, con tanto di costa, e l’immagine in copertina, a colori e ben impaginata sotto il logo cubitale del titolo, era una vera dichiarazione d’intenti che sembrava dire: “Ecco, questo è il nuovo, questo è l’artista su cui puntare oggi, comprami e lo conoscerai anche tu!
Se quindi, da bravi critici, mettiamo in fila negli anni le copertine di Flash Art, si nota una lieve, ma persistente, evoluzione, che, nel caso di Cattelan, è addirittura lampante. La prima copertina “ufficiale” conquistata da Cattelan, su Flash Art Italia no. 182, marzo 1994, dove compare l’opera Ninnananna, dello stesso anno, reca in basso, sotto l’immagine, la didascalia, con autore e titolo, ma seguita dai nomi degli altri artisti e dai titoli degli articoli che compaiono nel numero. La copertina di Flash Art Italia no. 215, aprile – maggio 1999, però, è già diversa: sotto l’immagine, divenuta poi famosissima, del mimo con il testone di Picasso e maglietta a righe (Untitled [Picasso][1998]), che spicca su una parete pop (forse un quadro di Lichtenstein), la didascalia “In copertina Maurizio Cattelan” enfatizza il nome del fortunato prescelto mettendolo in cima al sommario che segue. Dieci anni dopo, su Flash Art Italia no. 247, agosto – settembre 2004, dove compare ancora un’opera di Cattelan, i famigerati “bambini impiccati” di Milano (Untitled [2004]), la didascalia è sparita e campeggia in rosso e in maiuscolo semplicemente “MAURIZIO CATTELAN”. Infine, nel 2012, in occasione della grande retrospettiva al Guggenheim di New York, le copertine di Cattelan diventano addirittura cinque per lo stesso numero (Flash Art Italia no. 299, febbraio 2012) e la dicitura è ridotta a un apodittico “All Cattelan”.
Basterebbe questo stringato riassunto per capire l’importanza crescente delle copertine della rivista e il loro ruolo cruciale: ben più che semplice involucro o illustrazione, quel rettangolo di carta, moltiplicato per migliaia di volte ed esposto un po’ ovunque, dai bookshop museali alle edicole delle stazioni, era come uno spazio espositivo a cielo aperto, una mini personale della durata di un mese, e pertanto enormemente ambìto…
E per spingermi oltre in questa elucubrazione, arriverei a dire che la storia delle copertine di Flash Art s’interseca con la storia dell’Italia artistica degli anni Novanta – il vero decennio dell’arte contemporanea nostrana, una stagione irripetibile, come lo furono gli anni Sessanta per il cinema, gli anni Settanta per la politica e gli anni Ottanta per la moda. Registrando fedelmente l’“aria del tempo” (cioè gli artisti più innovativi e interessanti del momento) la rivista contribuiva a crearla, lanciando proprio quelle figure, di cui sembrava limitarsi a dar conto, in un cortocircuito fra fatti e descrizione dei fatti che costituisce il nostro Mysterium Magnum mediatico contemporaneo. Credo che il mix di ironia, disincanto, presa in giro all’italiana e glamour internazionale che costituisce il fascino irripetibile dell’arte di Cattelan, si sia sposato perfettamente allo stile di “impegno distaccato” del Flash Art di quegli anni – un’attitudine che, ancora oggi, coincide sostanzialmente con il sentire profondo della poetica artistica italiana.
Cover Theory
Ma se questo fu Cattelan per Flash Art, cosa fu Flash Art per Cattelan? Penso che sul piano della gestione delle immagini Cattelan abbia saputo come muoversi. Persino i detrattori più feroci del Maurizio nazionale dovrebbero sportivamente riconoscere che, se non altro, una cosa la sa fare bene, e cioè articolare le differenze non solo tra l’opera e la sua immagine, ma anche tra l’immagine come tale e l’immagine mediale. Anzi, quasi azzarderei che il suo lavoro consiste proprio nel giocare su quelle differenze: come nel caso di Strategies, il cui risultato ultimo era la falsa copertina di Flash Art, così, in tanti altri casi, l’opera e la sua foto ufficiale spariscono o sono difficilmente visibili; ma questo non fa che alimentare la proliferazione di infinite immagini giornalistiche che si propagano nei media di ogni tipo. Pochi hanno visto dal vivo il sacco telato con le macerie del PAC, ma la sua icona, lanciata da Flash Art, fece ben presto il giro delle redazioni giornalistiche; e lo stesso accadde, con ancor più virulenza, dieci anni dopo per i bambini appesi in Piazza XXIV Maggio a Milano. In quest’ultimo caso poi, allo scandalo suscitato dall’opera in sé fece seguito la notizia, anche più sconcertante, del tentativo di rimozione dell’opera da parte di un tipico “cittadino qualunque” (che, fra l’altro, si ferì cadendo accidentalmente dall’albero a cui i manichini erano appesi). Ora, tutti sanno che Cattelan usa avatar di ogni tipo e che spesso non è lui a rispondere alle domande degli intervistatori – però, che siano sue o meno, sono significative le parole che usa in un’intervista dell’epoca:
Prima di tutto, non ho invaso uno spazio privato, ma ho agito in un luogo pubblico. Inoltre non ho fatto nulla di illegale, e nulla di più sconveniente di molte altre cose che ci circondano e sono già sotto gli occhi di tutti. Senza contare poi che, per qualche ragione, dopo la rimozione della scultura, a nessuno è sembrato indecente che l’opera venisse riprodotta e trasmessa su ogni giornale o televisione. Questo è un fatto piuttosto incredibile: un’immagine che secondo alcuni era intollerabile in una piazza, diventa accettabile sulle pagine di un giornale o durante una trasmissione televisiva.[1]
Eh sì, è un fatto piuttosto incredibile, nel senso che, letteralmente, “non è credibile”: com’è possibile infatti che le immagini di un’opera, in sé insopportabile, siano ritenute universalmente inoffensive? Lo è solo a patto di riconoscere che le immagini (mediali) di un’opera non si limitano a riprodurla, ma generano effettivamente un diverso “regime scopico”.[2]
Accade così che vi siano immagini mediali delle opere di Cattelan che finiscono quasi per avere un significato artistico del tutto autonomo, come la fotografia delle tre braccia tese che spuntano dal muro nel saluto nazista (Ave Maria [2007], copertina di Flash Art Italia, no. 267, dicembre 2007), o la foto del tavolo che fuoriesce da una parete del MMK di Francoforte con sopra una torta di compleanno (Untitled [2007]), invisibile però per gli spettatori da fuori e difficilmente percepibile da dentro; oppure il cavallo stramazzato sotto il cartello INRI (Untitled [2009]) che, sulla copertina di Flash Art Italia, no. 278, ottobre – novembre 2009, è scontornato sul bianco e quindi volutamente avulso dal contesto espositivo.
La strana diffidenza che Cattelan ha sempre dimostrato nei confronti del video come strumento espressivo, e l’evidente disagio nei confronti delle interviste, in specie televisive (dove è sempre comparso di sfuggita, oppure usando una controfigura), si potrebbe spiegare in rapporto a questa predilezione per le immagini fisse, al punto che, per intendere molti suoi lavori, bisognerebbe forse ripensarli come “tridimensionalizzazione” di suggestioni visive inizialmente grafiche o fotografiche. La passione per le copertine, enfaticamente statiche, eppure, a modo loro, mobilissime, nel senso che sono capaci di comparire simultaneamente in tanti posti diversi, nasce da qui.
È una passione tipica di un’idea “laterale”, obliqua, dell’arte; Marcel Duchamp, ad esempio, dopo il Grande Vetro (1915-23), con l’aria di “non fare nulla” si era dato a creare copertine per i cataloghi degli amici come Man Ray (bellissima quella pop avant-la-lettre per una mostra da Julien Levy, del 1945). Non so se Cattelan questo lo sappia – ma sulla sua naïveté non giurerei troppo: di recente ho scoperto che l’idea della sua Fondazione Oblomov era assai simile al progetto di Duchamp di creare un “hospice des paresseux”, un “ricovero per oziosi”, da cui sarebbe stato immediatamente allontanato chi si fosse azzardato a lavorare (ne parla a Calvin Tomkins nelle sue Afternoon Interviews realizzate nel 1964).[3]
In questo “far finta di (far) niente”, la sfilata delle copertine flashartiane cade a puntino. Se le si guarda una dopo l’altra, disegnano proprio una “strategia”, come le carte voltate di un gioco d’azzardo: non sono solo una specie di “mostra” distribuita su un arco di tempo pluridecennale, ma finiscono per assomigliare a una vera e propria “opera”. E anche, direi, tra le sue più riuscite.