Trent’anni fa, Dan Graham presentò un progetto per una sala cinematografica che avrebbe messo immediatamente a nudo le strutture sociali e psicologiche del cinema. Cinema (1981) è un modello architettonico per un teatro angolare con una facciata a due file di specchi tra il pubblico e i passanti sulla strada. In base al lato più illuminato, gli spettatori possono vedere cosa sta succedendo dall’altra parte. Secondo la teoria psicoanalitica dei film, lo schermo tradizionale è sostituito da un altro specchio a due file. Una volta che il film termina e le luci si accendono, il pubblico diventa completamente visibile agli spettatori esterni e allo stesso modo loro sono riflessi sullo schermo a specchio. Il set sperimentale illumina in sintesi ciò che è fondamentale per il cinema fin dai suoi inizi: il suo status come strumento di massa che si rivolge a un gruppo di persone riunite in un unico luogo. Public Space/Two Audiences (1976), invece, concentra la posizione dello spettatore in un museo; simile a Cinema, l’artista altera l’architettura esistente dello spazio espositivo con specchi e vetri e toglie il consueto oggetto dello sguardo, in questo caso l’oggetto d’arte. Ciò che resta è lo spettatore di fronte all’immagine di se stesso che guarda se stesso.
Sullo sfondo di questi due punti di vista radicalmente differenti, la recente tendenza delle arti visive a spostarsi dal white cube alla sala cinematografica è degna di nota. Negli ultimi cinque anni, artisti come Shirin Neshat (Women Without Men, 2009), Steve McQueen (Hunger, 2008), Sam Taylor-Wood (Nowhere Boy, 2009) e Pipilotti Rist (Pepperminta, 2009) — per citarne solo alcuni — hanno lasciato temporaneamente i loro studi abituali per realizzare film che hanno a che vedere con il mondo della produzione e dei canali di distribuzione più comuni alle case cinematografiche. La maggior parte dei film è stata presentata nei circuiti internazionali dei festival ed è stata ampiamente recensita. Una ragione di questo aumento di lungometraggi realizzati da artisti è certamente la bolla del mercato dell’arte, ormai scoppiata, che ha incrementato la voglia dei produttori di investire in produzioni costose. Un’altra ragione è il desiderio di raggiungere il pubblico al di fuori del mondo dell’arte. Come scrive Pipilotti Rist nel catalogo del distributore di Pepperminta, “il rituale che consente di sedersi insieme per un dato tempo in un luogo buio dà al cinema una forza particolare: gli spettatori siedono insieme in un’unica bolla di pensiero!”. Questo desiderio di relazionarsi a un pubblico di massa attraverso il cinema arriva un po’ come una sorpresa quando il vecchio sistema di distribuzione e presentazione dei film cede a Internet, un meta-distributore che può consegnare ogni forma di immagine cinematografica direttamente nelle case della gente.
L’abilità del cinema di parlare alle masse era già nota nella teoria cinematografica sovietica e tedesca. Analizzando la perdita dell’aura attraverso la riproduzione meccanica e il crollo tra la percezione individuale e collettiva, Walter Benjamin sosteneva che il cinema potesse essere trasformato in una forma d’arte rivoluzionaria, una convinzione naïve che fu duramente criticata dai suoi colleghi della scuola di Francoforte e purtroppo smentita dalla macchina della propaganda nazista e da tutto il sistema commerciale cinematografico di Hollywood. Spesso, infatti, il vero cinema sperimentale e d’avanguardia doveva essere prodotto fuori dal canale tradizionale con mezzi indipendenti ed era solitamente presentato lontano dalle masse in piccoli teatri o in luoghi all’aperto durante il movimento Expanded Cinema degli anni Sessanta e Settanta.
Nei primi anni Novanta la marginalizzazione del cinema sperimentale prese una nuova via quando una generazione di artisti visivi cominciò a utilizzare il linguaggio del cinema classico, proiettando i loro risultati nelle gallerie d’arte invece che nei teatri alternativi. Artisti come Tacita Dean, Douglas Gordon, Stan Douglas e Steve McQueen si appropriarono del quasi centenario canone stilistico e i loro lavori entrarono nelle collezioni e nelle mostre dei più importanti musei, un prodotto tecnologico più conveniente e flessibile ma anche una visione nostalgica di un mezzo da parte della nuova generazione che rimpiazzava l’atteggiamento negativo dei precedenti registi underground. Le grandi e seducenti proiezioni negli spazi vuoti e bui divennero uno spettacolo familiare durante le mostre e le biennali.
Negli spazi della galleria il cinema fu presentato agli spettatori come un’esperienza uno a uno invece che comune. I visitatori di una mostra erano desiderosi di guardare le immagini in movimento delle opere in modo astratto, non lineare e frammentato. La loro capacità di muoversi senza limitazione intorno agli schermi, di entrare e uscire dalle presentazioni in ogni momento dava una nuova sensazione di libertà paragonata alla posizione fissa del cineamatore. Tuttavia, Public Space/Two Audiences di Dan Graham mette in evidenza che il regime visivo della galleria d’arte è ideologicamente assimilabile alle file di una sala cinematografica. Con l’entrata nel white box, le immagini cinematografiche sono diventate una continuazione della struttura visiva che aveva a che fare con la creazione del soggetto individuale affermatasi a partire dal XIX secolo. In questa genealogia, una mostra costituisce un rituale pubblico che esplicitamente si rivolge all’individuo, il quale, per primo e in primo luogo, capisce se stesso in quanto tale e quindi costituisce il soggetto ideale all’interno della società capitalista del consumismo.
Durante tutta la storia del cinema gli artisti sono sempre stati attratti dall’idea di realizzare dei film, giocando un ruolo importante nella scoperta delle sue possibilità estetiche. Uno dei primi film di Fernand Léger (Ballet mécanique, 1924) mostra scherzosamente la sua potenzialità astratta che non si discosta troppo dagli esperimenti dadaisti di Man Ray (Le rétour à la raison, 1923, ed Emak Bakia, 1926) che lavorò insieme a Marcel Duchamp sul modo abituale di guardare e leggere nell’installazione cinetica Anémic Cinéma (1926). In modo del tutto surreale Salvador Dalì e Luis Buñuel (Un chien andalou, 1928) così come Jean Cocteau (Le sang d’un poete, 1930) sperimentarono gli effetti meravigliosi di montaggio discontinuo e sovrapposto.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale la distinzione tra pittura, letteratura e danza divenne ancora più confusa. Molti artisti cercarono di avvicinarsi al cinema underground, che sosteneva una rappresentazione della sessualità esplicita e del materiale politico scottante. In Fuses (1967), Carolee Schneemann mostra il coito da una prospettiva femminile impressionista mentre Valie Export sfida lo sguardo fisso patriarcale del cinema con le sue azioni provocatorie come in Action Pants: Genital Panic (1969) e Tapp-und Tast-Kino (1968-71), nei quali incoraggia le persone per strada a toccarle il seno grazie a un congegno portatile con le tende. Con oltre sessanta film, esclusi i provini, Andy Warhol è l’artista che ha spinto l’intreccio tra arte e cinema all’estremo. Anche se i suoi film sono sempre stati prodotti indipendentemente, eccetto Chelsea Girls (1966), mai pubblicizzato abbastanza, la promozione delle Superstars di Warhol e il conseguente interesse dei giornali e dei programmi TV testimoniano un desiderio oltre che una sete evidente di rilevanza tradizionale.
Questo desiderio rimanderebbe ai successori di Warhol, i cosiddetti artisti della Picture Generation, che si dimostrarono molto esperti in fatto di media, utilizzando la cultura popolare come fonte inesauribile per i loro tentativi artistici. L’integrazione di un linguaggio vernacolare visivo conferiva profondità critica e rilevanza culturale alla loro arte. In ogni caso, le loro ambizioni di produrre dei film che in qualche modo attraessero il grande pubblico furono schiacciate sia artisticamente sia commercialmente, infatti né i critici né gli spettatori si sono mai dimostrati entusiasti per il film cyberpunk con elevati costi di produzione di Robert Longo, Johnny Mnemonic (1995), interpretato da Keanu Reeves. E il pluristellato Search and Destroy (1997) di David Salle al massimo è di grande effetto, ma senza andare al di là di una satira vuota e cinica. Allo stesso modo, il melodramma horror Office Killer (1997) di Cindy Sherman non soddisfa pienamente. L’unica eccezione tra gli artisti emersi negli anni Ottanta è Julian Schnabel (Basquiat, 1996; Prima che sia notte [Before Night Falls, ndr], 2000; Lo scafandro e la farfalla [The Diving Bell and the Butterfly, ndr], 2007; Miral, 2010) che un giorno potrebbe essere ricordato più per i suoi film che per i suoi dipinti.
La Picture Generation segna un punto di svolta nello storico flirt tra arte e cinema in quanto sembra non avere avuto interesse né ad ampliare i confini del mezzo né a cercare nuove idee cinematografiche in senso “deleuziano”. Da allora, gli artisti hanno preferito lavorare con installazioni di immagini in movimento piuttosto che con gli schermi cinematografici per creare correnti alternative di pensiero e rendere visibile il ruolo del tempo e dello spazio in esse contenute. Una delle poche eccezioni è il film Zidane: A 21st Century Portrait (2006) di Douglas Gordon e Philippe Parreno, che ha una temporalità strutturale che sfida ogni idea di ritratto sportivo e cinematografico ed è una potente testimonianza dell’incommensurabilità della vita. Analogo, ma con mezzi diametralmente opposti, l’eccessivo Cremaster Cycle (1995-2002) trascende il cinema essendo intrinsecamente legato alla pratica scultorea dell’artista. È interessante notare che entrambi i film vivono anche come installazioni in cui le loro dimensioni temporali e spaziali diventano più evidenti.
Accanto a questi esempi, l’ultima ondata di artisti diventati registi è piuttosto deludente. Impiegando uno spiccato linguaggio cinematografico e appoggiandosi pesantemente alla buona scrittura, Hunger di Steve McQueen, un film sulle ultime sei settimane di vita dell’attivista irlandese Bobby Sands, è forse il suo risultato di maggior successo. A parte alcune scene e l’uso consapevole del suono che attesta l’interesse dell’artista nei fondamenti strutturali del mezzo, il film non fa nulla per innalzare la forma d’arte stessa. La maggior parte degli altri artisti, come Pipilotti Rist, semplicemente prende le idee sviluppate con successo per i lavori in galleria e le trasforma in lungometraggi, aggiungendo qualche dialogo e alcuni elementi narrativi. Women Without Men di Shirin Neshat è l’esempio più irritante del gruppo poiché tenta di essere sia politico sia emozionale senza mai andare oltre il cliché di personaggi di una bellezza mozzafiato e di immagini altamente deduttive. Se l’unica cosa che dobbiamo aspettarci dagli artisti visivi è che ci offrano alternative al bombardamento incessante di vuoto, immagini paralizzanti nella società dei media, anche Piotr Uklanski fallisce con la sua versione polacca di Spaghetti Western intitolato Summer Love (2006). Il film — interpretato da Val Kilmer e rivolto a un’audience di film d’arte — cerca di superare il cliché portandolo all’eccesso, con il risultato però di rimanere impigliato in quello stallo autoreferenziale che è l’ironia.
Il progetto di Graham per il cinema non è mai stato realizzato, ma esiste solo sotto forma di modello architettonico. Tuttavia, ha dimostrato di essere una tipologia di pensiero produttivo per riflettere sulla natura del cinema, la sua struttura e le sue possibilità. Sottolineando l’importanza del confine tra interno ed esterno, il progetto dimostra perché gli artisti siano destinati a fallire quando mescolano i modi di produzione e distribuzione della galleria d’arte con quelli dell’industria cinematografica senza riflettere: semplicemente approdano a una serie diversa di confini ideologici. Di conseguenza, ora il lavoro più interessante si sta creando negli spazi che operano tra arte e cinema.
Fin dall’inizio della sua carriera, il regista tailandese Apichatpong Weerasethakul ha lavorato contemporaneamente in spazi espositivi e cinema. Il suo recente progetto multipiattaforma Primitive (2009), costituito da installazioni interconnesse, un libro d’artista e due cortometraggi, è stato presentato in diversi istituti d’arte a Monaco, Liverpool e Parigi. In un suo cortometraggio, uno schermo cinematografico viene bruciato da un gruppo di teenager tailandesi rivelando un proiettore a raggio spettrale. L’artista tedesco Clemens von Wedemeyer mostra un analogo interesse per lo schermo inteso come soglia tra interno ed esterno che necessita di essere riconsiderato. Nella cittadina di Mardin, vicino al confine meridionale della Turchia con la Siria, si sta al momento costruendo un cinema scultoreo all’aperto in uno dei pochi spazi pubblici. Rifacendosi al modello di Graham, il grande schermo monolitico sarà coperto sul lato posteriore con un grande vetro a specchio riflettente il sole che sorge. Una volta che Sun Cinema (2010) verrà completato, gli abitanti di Mardin, che fin dalla guerra civile tra i curdi del PKK e l’esercito turco negli anni Ottanta non hanno avuto un cinema funzionante, avranno la loro programmazione, avvalorando l’idea di von Wedemeyer di rilanciare i valori comuni e rituali del cinema.